1917 è un film di Sam Mendes, candidato agli Academy Awards e già vincitore di svariati Golden Globe e Bafta.
If in some smothering dreams, you too could pace
Behind the wagon that we flung him in,
And watch the white eyes writhing in his face,
His hanging face, like a devil’s sick of sin;
If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues,—
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
The old Lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.
Così recitava Wilfred Owen, war poet e insegnante morto giovanissimo, nel 1918, il giorno prima dell’armisitizio – il 4 novembre. Citando Orazio, grande poeta del passato, uno che del patriottismo aveva fatto la sua poetica: onorevole e dolce è morire per la patria.
E sull’assenza di una patria distante, su una causa che non viene mai neppure citata, che si imperna 1917, ultimo film di Sam Mendes acclamato dalla critica.
Il luogotenente Tom Blake e il caporale William Schoefield sono due soldati, piuttosto giovani, ma già meritevoli: veterani della tremenda battaglia delle Ardenne, due personalità affidabili e ben addestrate. Interpretati rispettivamente da Dean Charles Chapman e dal già affermato – Captain Fantastic, Pride – George McKay. Inizierà, dal fango della trincea, un viaggio allucinante attraverso il fronte tedesco – tedeschi che, per ragioni tattiche, sembrano essersi ritirati – fino al battaglione Devon, di lì a poco impegnato in un assalto frontale. Il compito del duo sarà quello di recapitare al colonnello McKenzie (Benedict Cumberbatch) l’ordine di interrompere o non iniziare affatto l’attacco, data la falsa ritirata dei tedeschi, che preparavano l’operazione da mesi.
1917 si muove sul filo dell’incubo dantesco, sulla perfezione stilistica, senza mai però sfociare nel tecnicismo eccessivo che fu lo scivolone principale di Dunkirk, film firmato da Christopher Nolan: i lunghissimi piani sequenza – idealmente, la telecamera non stacca mai dall’azione dei due protagonisti – sostengono con straordinaria forza la sensazione di trovarsi in quell’inferno.
Ed attorno all’inferno di Dante Alighieri sono modellate scenografie (di Dennis Gassner, alla sua prova migliore, dopo Blade Runner 2049) e fotografia (di Roger Dickins, anch’egli in Blade Runner): la discesa agli Inferi inizia dal risveglio dei due combattenti, sotto un tiepido sole ed un deandreiano campo di grano e tulipani, che si apprestano verso gli umidi tunnel della trincea inglese. Come Dante Schoefild, Blake – amante delle mappe – un originalissimo Virgilio, scivolano attraverso il campo di battaglia, terra avvelenata dalla polvere da sparo e dal gas tossico, fra pozze di acqua mefitica e scheletri di cavalli – ma non c’è limite all’orrore. Come nel bosco dei suicidi di Pier delle Vigne, cavalli di Frisia e filo spinato sono ornati da cadaveri bianchi e ghignanti di labbra ritratte dai denti – strani frutti di strani alberi. Perfino il terreno è incastonato di strane gemme, opali con occhi, naso, bocca. Laghetti putridi come il gelido Cocito, isolette di morti. I grigi dominano, nella prima parte del film.
Uno degli obbiettivi di Blake e Schoefield è attrversare la città di Ecoust – la dantesca Dite. Fiamme avvolgono le rovine, le illuminano in un grottesco giorno: fantasmi armati rincorrono Schoefield, in bagliori rossi di un’alba troppo lontana. Bare in fiamme, un Dante abbandonato dal suo Virgilio che deve continuare a scappare, a correre, e ha tempo solo per la poca pietà – silenziosa, in un film carico di musica – per un’anonima ragazza con un’anonima neonata, cui dona i suoi ultimi averi. Nell’inferno dantesco, poi, vi sono anche fiumi: ed ecco lo Stige, bloccato da una diga di morti, sui quali Schoefield deve issarsi per raggiungere la terraferma – il suo obbiettivo, evitare un massacro. Al fine, corpi spezzati e torturati – inferno in terra nella sua più pura realizzazione – accolgono l’individuo. Noi, gli spettatori, o loro, quei ragazzini che morirono un secolo fa.
Siamo ai colori assoluti, all’essenza che sfocia nella sinestesia, nella fotografia di Dickins, come già in Blade Runner 2049: gialli intensi, blu abissali, grigi sporchi.
Con l’incipit di 1917 siamo di fronte ad una delle più grandi prove registiche degli ultimi anni: un passo sostenuto, e, per la prima volta in un film di guerra, la sospensione dell’incredulità viene completamente azzerata. I due protagonisti non sono cadetti che, fortuitamente, con l’aiuto di qualche veterano esperto o un po’ di fortuna, sopravvivono: non siamo davanti all’inesperienza del Soldato Ryan. Schoefield e Blake sono due graduati di truppa, hanno vinto medaglie e battaglie: sanno muoversi in un campo di battaglia, non temono l’omicidio, non esitano a sparare se si tratta di difendere la loro vita. L’unico loro peccato è la pietà.
Infine, come un virgiliano Titiro qualunque, il caporale Schoefield si riposerà sotto ad un tiglio. Chiuderà gli occhi, e saprà che la sua opera è compiuta.
Sia chiaro: 1917 è un film originale nell’essenza, ma vive di grandi ispirazioni.
Orizzonti di Gloria, di Stanley Kubrick, nella tremenda immagine delle trincee; vive di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, sebbene ne risulti a tratti superiore per perfezione del linguaggio cinematografico, da cui prende la visceralità dell’esperienza, l’aspetto naturalistico e realistico. 1917 vive, poi, anche se sembra banale dirlo, dello sdoganamento dell’orrore della guerra dovuto al linguaggio videoludico: c’è il coraggio di portare l’orrore del nascondiglio, dell’inseguimento, delle cartucce bagnate, sul grande schermo – senza vergogna, coinvolgendo e terrorizzando lo spettatore. Ecco, 1917 di Sam Mendes va oltre il cinema, e crea l’esperienza. 1917 è in grado non solo di creare un viaggio, ma di trasportare lo spettatore con esso, anelandone alla fine.
Come Dante fece, 800 anni fa, guidato da Virgilio ed ispirato da Beatrice. Una Beatrice che, nel 1917, quei ragazzini di diciotto anni mandati al macello in prima linea, non conoscevano: perché loro, quei generali nascosti nelle loro gattaiole, non glielo avevano detto.
1917 è un film, prima di tutto, per non dimenticare quei trenta milioni di morti.
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