Nomadland è il racconto intimo del disagio sociale della Grande Recessione

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Da quando ha vinto il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia, Nomadland di Chloe Zhao ha collezionato riconoscimenti su riconoscimenti. L’intimo viaggio sulla scoperta di sé stessi portato sul grande schermo da Frances McDormand offre un ampio raggio di coloro che vivono schiacciati dal fantomatico “sogno americano”

Basato sul saggio di Jessica Bruder, la sceneggiatrice e regista Chloe Zhao ha fatto un lavoro maestro nell’aggiungere forma e consistenza al film Nomadland. Lunatico, introspettivo, personale e meditativo, la pellicola compensa il suo ritmo tortuoso, a volte esasperante, con le intuizioni sulla natura umana e il ritratto dell’indomabilità dell’anima. Frances McDormand si spoglia completamente del suo scudo, cammina nuda lungo tutto il viaggio in camper, scoprendo sé stessa attraverso paesaggi e piccole città dell’America, conoscendo persone e trovando amici durante il cammino, evitando deliberatamente qualsiasi contatto troppo ravvicinato.

In un’America lontana da paillettes e lustrini, ci sono vite radicate nella periferia, costrette a vivere da nomadi a causa della “tirannide del dollaro”

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E’ questo che ci mette davanti Fern (Frances McDormand), una vedova sessantenne che ha perso tutto: marito e città. La località in Nevada, Empire, è diventata una città-fantasma a causa della chiusura della miniera che dava lavoro a diversi operai. La donna, che vuole sfuggire a quel conglomerato urbano dai tratti post-apocalittici, decide di ritrovare la sua libertà. Prende poche cose, il necessario, e le ripone in un grezzo furgoncino che diventerà la sua casa. Da questo preciso momento inizia la sua vita da nomade.

Fern si sposta di stato in stato, di città in città, facendo dei lavoretti stagionali non appena ha l’opportunità di farsi qualche soldo: pulisce bagni, il pavimento di uno stabilimento Amazon e quello di un fast-food. Fa quello che riesce per permettersi lo stretto necessario e, sebbene abbia degli amici, trova sempre un’altra meta da perseguire. L’unica sua paura è quella che il furgone si guasti da un momento all’altro, lasciandola senza un riparo e senza un letto caldo su cui addormentarsi.

La regista Chloe Zhao intreccia abilmente, con un approccio del più bel neorealismo contemporaneo, realtà e finzione, raccontando un’esperienza di vita concreta. Accanto a Fern c’è Dave (David Strathairn) e tre mentori, aiutanti, compagni di vita – Linda May, Bob Wells e Swankie – che sono nomadi nella vita reale, che incorporano in Nomadland elementi biografici con nuovi dettagli forniti dalla sceneggiatura.

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Chloe Zhao e Frances McDormand

Senza indugi, forse un po’ si, ma fa niente, questa è stata la miglior interpretazione di Frances McDormand, ma nulla togliere a quella che ha riservato per Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Il viso scavato e nudo ci trasmette ogni sua sofferenza, ogni conflitto interno con cui Fern deve fare i conti durante la giornata. Questo è stato un autentico lavoro d’amore, un progetto che ha saputo valorizzare una delle migliori attrici del XXI° secolo e che corre di diritto verso il suo secondo Premio Oscar.

La sua è una recitazione metodica e vigorosa, non ha paura di sporcarsi, di farsi vedere al naturale. E’ capace di immedesimarsi talmente tanto bene nel personaggio che racconta che si arriva al punto da non distinguere più l’attrice hollywoodiana dai veri nomadi moderni che la circondano. Un lavoro nobile e pregiato che ci fa realizzare quanto siamo fortunati a poter vedere sullo schermo un’interprete che mette peso e consistenza in ciò che mostra, senza strafare.

Nomadland non è un film politico, nonostante abbia tutte la caratteristiche per esserlo.

Sebbene Zhao abbia deciso di raccontare la parabola discendete dopo la crisi della Grande Recessione, non enfatizza la crisi economica del 2008 per scaraventare la sua ira verso una società troppo cieca e povera d’animo per accorgersi di quello che stava succedendo negli Stati Uniti nel periodo storico-economico più buio dai tempi della Grande Depressione del ’29.

I personaggi da lei raccontati non si autocommiserano, non si sviliscono e non diventano oggetto di basso vittimismo. Mostrano coraggio e forza d’animo nel fare ciò che devono. Vanno avanti e trovano un significato di libertà nella loro nuova vita. Fern ci insegna che una casa non è legata ad un appezzamento di terreno. Che il suo cortile è l’ovest, il suo bagno sono fiumi e le braccia accoglienti nella notte sono la vastità delle montagne. Una profondità aiutata anche dalla liricità dell’evocativa colonna sonora firmata da Ludovico Einaudi.

Nomadland è il racconto del disagio sociale della Grande Recessione
Nomadland è il racconto del disagio sociale della Grande Recessione

Ma Nomadland non è nemmeno un film sulla natura.

Nonostante Zhao sia stata attenta a non filtrare le bellezza della natura che circonda l’intero film, insieme al suo direttore della fotografia, Joshua James Richards, non si sforzano di ottenere l’aspetto perfetto per le immagini come se fossero una brossure. Ci sono paesaggi bellissimi e distese maestose, ma la regista è impeccabile nel non distrarci e mantenere alta l’attenzione sulle persone che abitano quei luoghi e non sul mondo attraverso cui viaggiano. E’ più una ritrattista che una paesaggista. Infatti, sebbene i sentieri solitari sono fondamentali al racconto, non stacchiamo gli occhi ed il pensiero sull’avventura di Fern.

Se stai cercando azione, pathos e sequenze piene di foga ed energia, questo non è il film che fa per te. Se vogliamo non è nemmeno un film che ha una conclusione. Il suo obiettivo non è dare un finale vero e proprio ai suoi protagonisti, sebbene negli ultimi minuti si manifestano gli elementi più toccanti dell’intera produzione. Nomadland è un film on the road intimo e delicato. Ha il pregio di snodarsi lungo tutto il percorso, permettendo agli spettatori di entrare, poco alla volta, all’interno le storie dei personaggi, raccontando uno dei momenti più delicati della nostra storia contemporanea.

La qualità più grande di Nomadland è quella di affidare all’esperienza di una donna il racconto del viaggio del sé, mostrarsi per quello che si è, calarsi la maschera e scoprirsi capace di amare, ferire e soffrire, guidando il proprio destino verso mete lontane.

Isabella Insolia
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