Presentato in concorso alla 77esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Padrenostro di Claudio Noce è un dramma personale, dove il terrorismo politico fa da sfondo al filone familiare e al racconto più intimo tra padre e figlio. Pierfrancesco Favino regala l’ennesima interpretazione spettacolare
Scavando nel suo trauma degli anni Settanta, il regista Claudio Noce prende la storia dell’attentato a suo padre – Alfonso Noce, vicequestore che ha subito un attentato per mano dei Nuclei Armati Proletari – la elabora ed estrapola i sentimenti piudi quella vicenda per narrare come questi abbiano influenzato il corso della sua vita e quella della sua famiglia. Da qui nasce il terzo lungometraggio del regista: Padrenostro. Un film con una bella trama, riflessiva, ricca di spunti personali, ma che a tratti si perde nel corso delle sequenze, a causa di scelte narrative non condivisibili.
Sappiamo bene che il periodo del terrorismo in Italia rimane un argomento altamente minato nel cinema degli ultimi quarant’anni. Ma questo non è il caso di Padrenostro, o almeno non completamente.
La lotta politica è stata ampiamente ridefinita nella settima arte, riscontrando a volte un maggiore successo rispetto al racconto e alla ricerca degli organi ufficiali incaricati di fare luce su alcune vicende storico-politiche rilevanti. Non è un caso – o forse si – che quel periodo storico, generalmente compreso tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni ottanta del XX secolo, è stato ridefinito “anni di piombo” in seguito all’uscita nel 1981 del film Anni di Piombo di Margarethe von Trotta, che metteva al centro l’esperienza storica analoga e contemporanea vissuta dalla Germania Ovest.
Le turbolenze sociali degli anni Settanta sono al centro di Padrenostro. Noce non affronta il terrorismo, non rivede le motivazioni, le posizioni e le ideologie dei protagonisti, non rivela gli effetti del clima del terrore sulla società. Descrive quel periodo da un punto di vista soggettivamente archetipo: attraverso gli occhi di un bambino di 10 anni.
Noce all’epoca aveva due anni quando suo padre ha subito l’attentato. Suo fratello, invece, ne aveva dieci. Abbastanza grande per sentire il peso dell’evento ed accorgersi dei cambiamenti all’interno della famiglia, ma troppo giovane per avere ricordi vividi e distinti di quel momento così drammatico. Per rendere la vicenda più dinamica, il regista ha romanzato la storia, creando una sorta di avatar di se stesso. Lo ha chiamato Valerio (Mattia Garaci), gli ha dato 10 anni e ha affidato a lui lo sfogo di una vita.
In Padrenostro ci troviamo a Roma, nel 1976, Valerio vive in una famiglia borghese apparentemente normale. La madre Gina (Barbara Ronchi) è la classica mamma italiana degli anni Settanta, protettiva e amorevole. Suo padre Alfonso (Pierfrancesco Favino) è una figura più recondita, spesso assente da casa per lavoro, il tipo di paterfamilias che chiama suo figlio “piccolo uomo” e racchiude ogni manifestazione emotiva dietro muri metaforici costruiti con gravità e maschilismo. Ma quella era la normalità del tempo. E poi c’è la dolce e tenera sorella minore Alice (Lea Favino). I due bambini vengono aiutati e coccolati nella crescita dalla “ragazza alla pari” Ketty (Eleonora De Luca).
La vita domestica di Valerio è tranquilla, fin quando una mattina viene svegliato dal suono degli spari. Il suo istinto lo porta ad affacciarsi sul balcone e osservare suo padre che viene ferito in quello che si rivela un vero attentato in cui uno dei terroristi viene ucciso. La sequenza in cui viene raccontata la vicenda è carica di pathos perché girata in maniera precipitosa, in una sorta di vedo-non vedo tipica dei bambini.
Gina non si accorge che suo figlio ha assistito alla carneficina che ha ferito il marito. Così, ignara che Valerio è stato uno spettatore oculare, crede di poter proteggere i ragazzi tenendoli all’oscuro, vietando loro di entrare nella sala tv o di leggere un giornale. Anche quando Alfonso torna a casa, con le bende nascoste sotto i vestiti, i suoi genitori fanno finta di niente: per loro è tutto normale. Ma di normale non c’è niente e il grido senza voce di Valerio buca lo schermo.
L’insofferenza di Valerio viene placata dall’incontro con Christian (Francesco Gheghi), un ragazzo più grande con cui condivide la spensieratezza quotidiana. Fin quando un giorno, con alcuni pezzi di gesso, disegna l’attacco terroristico. Questa, senza dubbio, è la sequenza più forte e violenta del film, pregna di lirismo, girata e montata parzialmente in slow-motion e con un crescendo di emotività che riporta a casa lo stato d’animo disturbato del ragazzo. Proprio in quel momento Gina e Alfonso arrivano, scioccati nel rendersi conto che il loro figlio ha visto molto più di quanto avrebbero potuto mai immaginare.
La famiglia allora decide di fuggire in Calabria, nella casa di Alfonso, dove i suoi parenti cercano di fornire il sostegno emotivo e il calore umano di cui tutti hanno bisogno. Man mano il film diventa meno drammatico e più una storia romantica tra padre e figlio, dove gli anni del terrore fanno da sfondo ad una bellissima Calabria degli anni Settanta color seppia, le macchine vintage, la grande casa di campagna e la musica di Vivaldi in sottofondo.
La solitudine di Valerio viene spezzata, ancora una volta, da Christian che diventa una presenza sempre più forte nella vita del ragazzo. Facendo in modo che lo spettatore si chieda se sia reale o frutto dell’immaginazione. Chi è quel ragazzino venuto da Roma? Esiste davvero o è una fantasia di Valerio? Se non esiste perché tutti lo vedono e parlano con lui?
La trama di Padrenostro è senza dubbio interessante. Il periodo viene esaminato sotto una chiave di lettura diversa ed originale. Un dipinto d’epoca accorto e ricreato meticolosamente: dai giradischi ai telefoni di bachelite.
Peccato che Noce e il co-sceneggiatore Enrico Audenino si concentrano, forse un po’ troppo, sulle paure e i desideri repressi del bambino, bypassando l’evento in sé. La sceneggiatura di Padrenostro, allontanandosi deliberatamente dalla politica, offusca il confine tra realtà e fantasia. In questo modo, al termine della pellicola, si ha la sensazione che qualcosa di molto importante sia stato tralasciato e omesso.
Ciò che è meritevole è come vengono raccontati i personaggi e i dilemmi familiari. Sia Valerio che Christian sono intriganti: la vulnerabilità del primo si sposa magnificamente con la misteriosità del secondo. Senza parlare della trasformazione di Gina: da madre celeste a figura isterica. Per il giovane Mattia Garaci è la prima esperienza davanti la macchina da presa, ed è una presenza magnetica e naturale, raccontando l’inquietudine di un bambino alla ricerca di una connessione con il padre assente, quasi scomparso.
Ma in Padrenostro a giganteggiare, ancora una volta, è Pierfrancesco Favino, il meritato vincitore della Coppa Volpi a Venezia 77. Il suo personaggio viene alla ribalta poco alla volta, diventando una presenza solida, costante e autorevole. I suoi completi color salmone con risvolti larghi e le sue cravatte lo rendono credibilmente autentico ed elegante. Un’ulteriore prova formidabile che dimostra l’essenza della sua arte, confermandosi l’attore più rappresentativo della sua generazione.
In definitiva, Padrenostro fa affiorare il bisogno di normalità familiare e quel diritto di vivere liberamente.
Una libertà narrata attraverso l’amicizia, ma che non si limita alla sola relazione interpersonale, ma va oltre. L’amicizia viene raccontata come un rifugio, un posto utopico dove sopravvivere all’orrore, un aiuto nel raccogliere i cocci e riconoscere la dolcezza nel volto di un padre troppe volte assente, ma che discerne nelle parole mai dette.
Padrenostro è il racconto di una verità insopportabilmente ovattata per i bambini. Una verità che si destreggia nel mare di una realtà che non fa sconti e che inevitabilmente filtra tra i silenzi delle mura domestiche. Una verità che non necessariamente deve passare attraverso le parole, ma basta uno sguardo per rispondere ai dubbi e all’incertezza generata da una violenza gratuita.
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Bel film, il dubbio è sul ragazzo amico del bambino, quando ha cacciato l articolo fa credere di essere il figlio del terrorista ucciso, o mi sbaglio?