Black Lives Matter, siamo tutti d’accordo. Ma l’arte non va toccata. Come ogni movimento che, storicamente, nasce con ottimi intenti e basi sacrosante, alla fine stiamo vedendo emergere (purtroppo) filoni interni che, estremizzando un concetto, non solo stanno rendendo vana la lotta alla discriminazione privandola anche di credibilità ma soprattutto instaurando una “ratione” mentale improntata sulla censura, sul timore dell’essere etichettati come “razzisti” per delle scelte che, se contestualizzate a dovere, farebbero rendere conto a tutti della loro “innocenza”. L’arte, ovviamente, ci sta finendo in mezzo con tutte le scarpe. In particolare quella cinematografica
Dal “Black Face” al doppiaggio, passando per le accuse di razzismo rivolte a pellicole cinematografiche e serie tv. Ormai quello che sembra essere sempre più evidente agli occhi di chi razionalmente conduce delle lotte (ma con garbo) e che qualcuno ha decisamente perso la misura delle cose andando ad inficiare anche la libertà dell’espressione artistica.
Parliamoci chiaro, i diritti umani e il concetto di tolleranza e uguaglianza sono sacrosanti e proprio dal laboratorio artistico, spesso, ne passano quelle opere che si rendono manifesto di tali messaggi
Ma cosa succede quando, come in questo momento, proprio quelle opere che dovrebbero essere simbolo di una “denuncia” vengono fraintese dalla frangia di estremisti che, ormai presa da un chiaro delirio di onnipotenza, vogliono distruggere per principio tutto ciò che non sembra corrispondere alle loro papille gustative?
Il disastro, ovviamente. Il disastro della distruzione della tolleranza e, ancor prima, della libertà di espressione artistica. Il disastro della distruzione del concetto di “qualità professionali” che passano in secondo piano rispetto al colore della pelle. Paradossale, direte voi, che chi lotta contro il razzismo sia in grado di portare alla discriminazione.
Ma è esattamente quello che succede quando nel mondo del doppiaggio arriva la folle pretesa che un personaggio di colore debba necessariamente essere doppiato da una persona di colore
Perché curarsi del colore della pelle quando, in un mondo come quello del doppiaggio, dovremmo curarci unicamente della capacità e dell’abilità di utilizzo della voce? Perché farsi certe premure quando abbiamo esempi nel cinema in grado di demolire questa forma mentis? Basti pensare a quel James Earl Jones che, omaccione di colore, è stato in grado di regalare quella voiceline tanto distintiva a un Darth Vader che, di etnia caucasica, è rimasto tra i villain più grandi della cultura pop anche grazie alla sua timbrica vocale.
Seguendo questo ragionamento, allora, un chiunque attore bianco non potrebbe essere doppiato da persone di colore, anche se le loro voci, magari, potrebbero essere le più adeguate alla caratterizzazione. Credo qualunque idiota sia in grado di capire quanto il colore della pelle valga zero in un mondo come quello del doppiaggio, dove chi avvezzo a quel talento è in grado di modificare la sua voce in modo impressionante tanto da far sparire ogni possibile parvenza di fisionomia, adattandosi così al volto e le forme di un qualunque interprete.
E poi, perdonatemi, mi state forse dicendo che anche sul timbro e l’utilizzo della voce influisca il colore della pelle? Non vorrei sbagliarmi ma, sinceramente, mi sa un poco razzista. Chiedete ad artisti della voce come Mario Biondi, per intenderci.
Purtroppo però la follia del “Nazi Blm” non si è fermata a disturbare solo il mondo del doppiaggio ma con idiozia retroattiva ha affondato le sue grinfie anche nelle pellicole del passato. Esempi? Via col Vento, film reso straordinario proprio dal rapporto tra la protagonista e Mami (la cui interprete Hattie McDaniel sarà la prima afroamericana a vincere un Oscar) e grande specchio di quella mentalità razzista che, nel passato, affondava i suoi artigli su ogni livello sociale e che, per giustizia storica, non può essere oscurata ma va narrata anche e soprattutto in funzione di insegnamento.
O ancora le accuse stupide, ignoranti e inaudite a Tropic Thunder, dove Robert Downej JR è finito dentro l’occhio del ciclone, sentite un poco, per la sua interpretazione di un attore caucasico che interpretava un uomo di colore, scelta di trama rivolta proprio alla critica raziale che, talvolta, ancora è riscontrabile nel mondo di Hollywood.
Ma no, è troppo difficile guardare il film e rendersi conto che la scelta del black face di R.D.J è una scelta di sceneggiatura
essendo lui nella parte di un decadente attore bianco di Hollywood che avrebbe dovuto interpretare un protagonista di colore rivestendone gli stereotipi. E’ troppo difficile non aggredire South Park rendendosi conto che, in un simile cartone satirico, elementi dissacranti sono sparsi in ogni dove e “contro” ogni etnia e classe sociale proprio per la natura profondamente “goliardica” della serie TV.
L’apice è stato raggiunto, probabilmente, quando anche Scrubs è stato accusato di razzismo e Black Face a causa di due puntate dove J.D, protagonista della serie, decide di dipingersi il volto compiendo un gesto che niente aveva a che vedere di raziale ma unicamente di comico e goliardico. Ovviamente il tutto realizzato assieme al suo amico di una vita e collega, Turk. Quello stesso Turk che, assieme a J.D, in amicizia viene mostrato più volte scherzare sul colore della sua pelle, beccandosi il soprannome di “orsacchiotto di cioccolata” in alcune puntate a dimostrazione di quanto, tra amici, i limiti raziali ormai abbattuti ci consentano di scherzare affettuosamente sulle cose senza compiere scempio e malizia.
Fa ridere che proprio Scrubs, serie tv dove viene in tutti i modi messo in luce il valore dell’amicizia al di la delle razze, sia stata presa d’assalto dall’inquisizione del Black Lives Matter che, probabilmente, nemmeno si è premurata di approfondire il senso dei personaggi, i loro significati, le loro peculiarità. Una serie tv che tutto fa meno che contrastare l’integrazione mostrando quanto il valore umano della vicinanza al prossimo sia fondamentale per la nostra vita, in barba a razze, ceto sociale ed etnia.
Troppo difficile rendersi conto che, alle volte, l’attuazione di certi elementi sono narrazioni dovute a necessità di trama, di storytelling. Difficile rendersi conto che talvolta si possono dipingere due amici che scherzano tra di loro sui reciproci stereotipi raziali (sgominandoli) o che possa essere dipinto su di un grande schermo il fenomeno del razzismo, proprio per denunciarlo.
Ed è così che anche un Quentin Tarantino è finito dentro l’occhio del ciclone per il suo estremo utilizzo della parola “negro”.
Quel Quentin Tarantino autore di Django Unchained, film dove i razzisti prendono ceffoni a destra e a manca da chiunque. Quel Quentin Tarantino che nelle sue pellicole utilizza spesso termini forti, dissacranti e scurrili come la parola “negro” per costruire un ambiente che sia al 100% adeguato alla sua narrazione di eventi spesso violenti, paradossali, esasperati e grotteschi.
Insomma, è troppo difficile per i “paladini dei diritti” fare della contestualizzazione sull’arte che sia in grado di andare oltre quei loro ideali portati avanti a mò di ghigliottina senza alcuna cura per il senso delle cose. Troppo difficile per i paladini del diritto capire che sono proprio questi gli atteggiamenti che aumentano la disparità raziale, perché se su una pellicola un bianco può essere offeso e preso in giro “avanzando a stereotipi”, allora può anche un nero, perché si tratta di un film e i film, in quanto tali, devono anche regalare narrazioni della vita, nei suoi lati negativi e positivi e senza alcuna censura.
Troppo difficile capire che la censura dell’arte è l’apoteosi dell’intolleranza, specie se richiesta esplicitamente da chi incapace di leggerne i contenuti e i significati. E, con totale indifferenza verso chi potrebbe offendersi per una simile dichiarazione, chiunque sia stato d’accordo con gli episodi sopra narrati probabilmente risiede proprio nella grande ignoranza, non meritando nemmeno di vedere il suo parere preso in considerazione.
L’arte va osservata, contestualizzata. Bisogna capire quando si rende narrazione di eventi grotteschi che rispondo alla realtà e quando manifestazione goliardica proprio atta a sfatare il peso della discriminazione raziale (perché si, anche ridendo sulle cose sbagliate e privandole della loro serietà delegittimiamo chi vuole farne stili di vita e ideali).
In entrambi i casi va tutelata, nella sua veste di rappresentazione della realtà, di denuncia e di insegnamento e, credetemi, se dovessi mostrare tramite un film “meno impegnato” la brutalità e l’erroneità del razzismo da un mio futuro figlio lo farei con Django Unchained (moglie del me futuro perdonami) e se dovessi mostrargli il valore dell’amicizia oltre ogni stereotipo lo farei con Scrubs.
Da persona opposta ad ogni tipo di discriminazione chiedo a voi folli estremisti, intolleranti e discriminanti di tenere le mani giù dall’arte e, se possibile, anche dalle cause nobili come quella che si oppone al razzismo. Non farete altro che annichilire l’una e l’altra e tutto per poter dire di aver guadagnato i vostri stramaledettissimi e ridicoli cinque minuti di notorietà nell’era dei social.
Ho un solo aggettivo per voi: imbarazzanti.
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