Creature di Dio: Madri e figli a confronto in un doloroso dramma irlandese

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Dopo il successo de Gli Spiriti dell’Isola e di The Quiet Girl, arriva nei cinema grazie ad Academy Two un altro potente dramma ambientato in Irlanda, in cui il territorio ricopre un ruolo fondamentale per raccontare le dure vicende dei personaggi che lo popolano.

Presentato al Festival di Cannes 2022 nella Quinzaine des Réalisateurs, Creature di Dio segna la seconda collaborazione tra le newyorkesi Anna Rose Holmer e Saela Davis (The Fits), stavolta impegnate entrambe dietro la macchina da presa per dirigere la veterana Emily Watson e il lanciatissimo Paul Mescal (Normal People, Aftersun) in questa storia intensa e coinvolgente sul peso della menzogna all’interno di una piccola comunità di pescatori, raccontata attraverso un tormentato rapporto tra madre e figlio che ha il sapore di una tragedia greca.

“Al buio, siamo tutti creature di Dio!”, afferma Sarah (Aisling Franciosi, già protagonista assoluta in The Nightingale di Jennifer Kent) in un momento di intimità e di pausa dal lavoro che condivide con le altre donne del villaggio. In questa frase, dalla portata quasi biblica, è racchiuso tutto quel senso di disperazione e di tacito abbandono a cui lei, la più giovane delle lavoratrici, si è già arresa, rinchiusa all’interno di dinamiche di potere e meccanismi sempre uguali, destinati a ripetersi nel contesto di un microcosmo cittadino in cui tutti sembrano intrappolati, muovendosi come pedine su una scacchiera. Il lavoro, in questo piccolo quanto remoto villaggio sulle coste irlandesi, è alla base di tutto ed è strettamente connesso con il territorio, regolato dai tempi e dai ritmi inesorabili delle maree, per cui la natura può rivelarsi allo stesso tempo fonte di vita ma anche di tragedia e morte.

Creature di Dio: Madri e figli a confronto in un doloroso dramma irlandese

Ed è proprio all’insegna della morte che si apre la vicenda narrata, quando dalle acque locali viene ripescato il corpo senza vita del giovane Mark, evento che concorre a minacciare l’equilibrio della fragile comunità insieme a un altro, forse solo apparentemente positivo: l’improvvisa ricomparsa di Brian, figliol prodigo di ritorno da un lungo periodo passato in Australia, pronto a tornare sui suoi passi e riprendere il lavoro di pescatore nella sua terra natale, per la gioia della madre Aileen.

La fede e l’amore incrollabili della donna, che non esita un attimo a rubare dal locale impianto di lavorazione del pesce in cui lavora per aiutare il figlio, verranno messi a dura prova quando si ritroverà costretta a fornire a Brian un finto alibi per difenderlo dall’accusa di violenza sessuale nei confronti della giovane Sarah. Ha inizio così un turbine di menzogne che porta a una escalation emotiva in cui il solido, ma anche a tratti morboso, rapporto tra Aileen e Brian ne uscirà forse irrimediabilmente compromesso, così come la posizione della donna e il modo in cui lei guarda a sé stessa e al resto della comunità.

Uno dei punti di forza di Creature di Dio è proprio la scelta delle registe di adottare come punto di vista della vicenda quello di Aileen, apparentemente esterna ma coinvolta in realtà direttamente nel presunto caso di violenza, dal momento in cui decide di stare dalla parte del figlio e di coprirlo, pur sapendo già come stanno le cose. Costretta a mettere in discussione forse per la prima volta quelle leggi e quelle tradizioni a cui fino a quel momento ha aderito ciecamente, Aileen, sorta di moderna Medea, intraprende un percorso di cambiamento che getta nuova luce sui rapporti all’interno del villaggio e che la porta a rivalutare la sua intera esistenza.

Nell’interpretarla, Emily Watson (qui in un ruolo che, insieme all’atmosfera generale che si respira, può richiamare alla mente Le onde del destino di Lars Von Trier, suo film d’esordio) è bravissima a tenersi tutto dentro senza mai esplodere veramente, recitando in sottrazione e privilegiando i silenzi alle parole, gli sguardi alle azioni dirette; tutto nella sua prova sta nel modo in cui la donna si spoglia delle vesti di madre pronta a tutto per proteggere il figlio per indossare quelle di giudice (e forse boia) in una cittadina anchilosata su un patriarcato non così latente, a cui corrisponde un forte cameratismo tra colleghe, madri e figlie.

L’oggetto dello sguardo di Aileen, e dunque dello spettatore, è Brian, un Paul Mescal qui a suo agio nei panni di figlio problematico tanto quanto lo era in quello di padre-bambino affettuoso e tormentato in Aftersun (anch’esso presentato fuori dalla competizione principale nella stessa edizione di Cannes), ormai volto simbolo di un nuovo tipo di mascolinità vulnerabile e problematica, il classico bravo ragazzo a cui guardiamo inizialmente proprio come fa la madre, e lentamente il nostro giudizio su di lui cambia insieme a quello del personaggio.

Creature di Dio: Madri e figli a confronto in un doloroso dramma irlandese

Un ruolo, quello del figlio, più in ombra e che richiede sicuramente meno sfumature rispetto a quello di Aileen, giocato molto sul non detto e su un passato su cui si cerca sempre di sorvolare (visti gli sviluppi, viene da chiedersi cosa possa aver combinato il giovane in Australia tanto da doverla abbandonare così improvvisamente per tornare a una vita non così invitante), e che alla fine non permette mai a Mescal di rubare veramente la scena.

L’altro grande protagonista è poi proprio l’ambientazione, un’Irlanda plumbea e burrascosa in cui il tempo sembra essersi fermato e da cui i fantasmi del passato non sembrano intenzionati ad andarsene; lo sguardo della macchina da presa su questi luoghi non è mai meramente contemplativo, ma i suoni e le immagini sono sempre lì a sottolineare gli stati emotivi attraversati dai personaggi, cambiando insieme a loro. È un luogo questo soffocato dalle sue tradizioni, in cui, a discapito di una vita passata in acqua e che deve sempre tenere conto della pericolosità delle maree, ai giovani non viene insegnato a nuotare affinché a nessuno venga in mente di tuffarsi per salvare un compagno in pericolo.

Un’ammonizione questa che sa già di condanna e preludio a un’inevitabile tragedia, e che in qualche modo sottolinea la natura dei rapporti tra gli abitanti di quel luogo, una solidarietà che decade nel momento in cui il più indifeso rimane indietro e ha bisogno di aiuto, ha bisogno che qualcuno si stacchi dal gregge e gli tenda una mano per riportarlo a casa. Qui, se cadi in mare, nessuno verrà a salvarti, tutti si volteranno dall’altra parte. L’unica possibilità per chi come Sarah riesce a vedere le cose per come sono realmente allora, proprio come per la Siobhán de Gli Spiriti dell’Isola, è forse solo la fuga, lasciarsi alle spalle tutto e ricominciare una nuova vita lontano, alla ricerca di una libertà possibile solo altrove.

Alla fine, Creature di Dio paga forse il suo essere troppo lineare e prevedibile, attento com’è a costruire una tensione che monta lentamente fino a una risoluzione affrettata e decisamente radicale, ma riesce a coinvolgere grazie alle ottime prove dei suoi attori e all’ acuto e intelligente lavoro di fotografia e sound design delle due registe, raccontando una storia tanto interessante quanto radicata nel suo territorio e che riconferma il cinema irlandese come uno dei più importanti e interessanti del momento.
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