Piccolo corpo di Laura Samani: recensione

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Piccolo Corpo è il lungometraggio d’esordio di Laura Samani, presentato durante la Settimana della Critica al Festival di Cannes 2021, nonchè film di chiusura del Trieste Film Festival 2022.

Il Friuli è una terra schiacciata fra il mare e le montagne. Una striscia larga poco più di 50 km, percorsa da fiumi sassosi. È la regione più piovosa d’Italia. Il clima è freddo per gran parte dell’anno. Le Alpi si levano come una muraglia improvvisa, non declinano in dolci colline. La sua gente è schiacciata fra la potente Venezia e il mondo slavo. Ma parla una lingua diversa da entrambe.

Piccolo Corpo è il primo lungometraggio di Laura Samani, regista triestina classe ’89, e la sua trama è apparentemente semplice. Inizio ‘900, laguna di Marano. Laddove le abbondantissime acque che piangono sulle montagne si mescolano all’Adriatico, e su di esso spuntano tante piccole isole. I caratteristici casoni lagunari si elevano come strani arbusti sulla superficie sabbiosa di un’anonima isoletta di pescatori. Anziane donne cantano una canzone tradizionale baciando e benedicendo il pancione di una ragazza, Agata (Celeste Cesciutti). Non avrà neanche vent’anni, ha lunghi capelli castani e occhi nocciola.

Dopo una notte di travaglio e sofferenza, Agata partorisce. È già grigia, dicono le levatrici. È già morta. Il prete, purtroppo, nulla può. I bambini nati morti, per la religione cattolica (fino a che, nel 2007, Benedetto XVI non si pronunciò in merito) sono, infatti, condannati all’eterna permanenza nel limbo. La bimba di Agata, quel piccolo corpo, non avrà mai neppure un nome. Agata non riesce a sopportarlo. Prega il prete, scongiura.

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Qualcuno le sussurra di un santuario, lassù nelle montagne. In Carnia, in Val Dolais. C’è un paesino, di nome Trava, vicino ad un lago. Lassù, nel ventre delle montagne, le donne vanno a pregare per i loro figli che non hanno mai respirato.

Agata inizia così il suo viaggio. In una notte, velata dalla pioggerellina che copre quasi costantemente il Friuli e la vicina Slovenia, dissotterra la piccola bara, e se la assicura sulle spalle come uno zaino. Ruba una canoa, rema sull’acqua color piombo nella notte. Si addentra nella foresta, finchè non incontra Lince (Ondina Quadri), un ragazzo che la accompagna per un breve tratto, ma cerca di venderla ad una ricca famiglia che necessitava di una balia. Agata però non demorde, e lotta come una fiera per compiere il proprio destino. Lince la accompagnerà nel percorso.

Piccolo Corpo ha, chiaramente, la maternità come tema centrale. Le mille avversità della maternità. La sua insensatezza, innanzitutto: siamo esseri senzienti e razionali, noi, metà dell’umanità in grado di generare la vita. Sappiamo di avere migliaia di ovuli all’interno delle nostre ovaie, eppure è quel singolo zigote a solleticare una bestia ancestrale che dorme placida nei recessi del nostro cervello. In Piccolo Corpo non si insiste affatto sulla necessità di avere un marito per concepire: no. Siamo noi ad essere portatrici della vita, e gli uomini non servono. L’unico personaggio maschile è, in realtà, una vergine giurata. Il marito di Agata appare per un fotogramma, ricoperto di sole, mentre lei, scura in volto e sanguinante, appena partorito, gli chiede dove sia la bambina.

La religione – l’eterna condanna al limbo – è forse solo un pretesto per il viaggio di Agata. Lei non è mai uscita dalla laguna, Lince non ha mai visto il mare: due universi diversi che albergano nella stessa piccola striscia di terra fra valle della Vipava e pianura Padana. Agata perde il senno e perde se stessa mentre i suoi capezzoli, gonfi di latte, non hanno chi nutrire. Quel luogo grigio, smorto, che è il limbo: la sua bambina non spenderà lì l’eternità.

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La scrittura di Piccolo Corpo (Telesce è il titolo sloveno, che significa letteralmente “corpicino”) si avvale di espedienti tipici del realismo magico: riti iniziatici semi-pagani, cui si mescolano credenze popolari precristiane – quando quelle cristiane non risultino ancor più sciamaniche – che hanno le proprie radici in una cultura contadina. Una cultura particolare, che possiede un folklore mescolato di due culture, veneto/italica e slava, e che mescola molteplici influenza. Così, l’attraversamento di una grotta mineraria diviene vietato alle donne: è un rito di purificazione, ed è, allo stesso tempo, reiterazione dell’ordalia oscura che è di per sé il parto. Accompagnata da una preghiera in sloveno quando le due (tre) donne ignorano il consiglio di non entrare nel ventre di quella montagna.

Ogni piccolo evento è carico di forte simbolismo in Piccolo Corpo: durante l’attraversamento del tunnel, è solo il canto di un canarino affidato come portafortuna a Lince a scuotere il silenzio dei mostri sotto la montagna (gora, in sloveno). L’allegoria della sofferenza sublimata ad estremo sacrificio materno è portata avanti per l’intero film, che sia nella febbre puerperale di Agata, o che sia nel suo atto estremo nel lago.

A livello tecnico, Piccolo Corpo è un film estremamente godibile. Girato per gran parte con la luce naturale che i meravigliosi paesaggi forniscono, la sua fotografia si colora laddove necessario: le piccole luci, candele e lampade ad olio, a rimpiazzare un sole che non appare mai, realmente, in tutto il film.

Eppure, Piccolo Corpo, nella sua ora e mezza scarsa di durata, lascia una sensazione di incompiuto. Un bellissimo lavoro, ma ha il sapore di un antipasto. Il folkore friulano/giuliano/sloveno è ricchissimo: si passa dai krampus a feste di primavera pagane, fino al festival dedicato al fallo di Monteprato. Si vuole sapere di più, su quel santuario sul lago innevato. Ma Laura Samani non ce lo dice.

Menzione d’onore alle due protagoniste: l’interpretazione sofferta di una ragazza folle per la sua bambina morta contribuisce a gran parte del buono del film, mentre la freddezza mascolina ostentata di Lince fornisce un contraltare surreale e onirico – quella piccolissima sensazione di straniamento dalla realtà che è tipica del realismo magico.

Piccolo Corpo è indubbiamente un esordio eccellente: si va ad inserire in una scia di registe (leggi qui Murina, qui Sestri) provenienti dal nord-est d’Italia, e che si propaga per tutti i Balcani, che ridanno dignità alla figura cinematografica della donna come eroina in gado di narrare la propria storia, e che essa sia anche riguardante qualcosa per cui siamo considerate deboli, inferiori. La gigantesca capacità di generare la vita.

Giulia Della Pelle
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