Silo, prima stagione: recensione

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Silo è una serie Apple TV, firmata da Graham Yost e con protagonista Rebecca Ferguson. Una fiaba di liberazione in un moderno mito della caverna platoniano.

Ultimamente, Apple TV – come novella produttrice di serie tv – non ne sbaglia una. Così, dopo Severance, Foundation, è arrivata Silo, basata sulla trilogia omonima scritta da Hugh Howey.

La curiosità è una brutta bestia, ma è insita nell’animo umano. Più spesso, l’ignoranza è una benedizione. Queste affermazioni all’apparenza qualunquiste risultano tanto più vere nell’universo del Silo: qualche centinaio di livelli, sotterranei, in un gargantuesco grattacielo che è una torre rovesciata, un faro invertito.

Silo: premesse del primo episodio

È la curiosità a guidare la piccola famiglia di Holston e Allison Becker (rispettivamente, Rashida Jones e David Oyelowo), ed è l’espediente narrativo che dà il la all’inizio delle danze di Silo. Nel primissimo episodio, si apprende che ciò resta dell’umanità è confinata – o almeno, così pare – in un gigantesco silos sotterraneo, concepito come un’unità perfettamente autonoma ed in grado di mimare il livello tecnologico dei tardi anni ’90. La possibilità di riprodursi, in un mondo con risorse e spazi limitati, è affidata alle coppie dalla Lotteria: Allison, impiegata brillante del reparto IT, avrà finalmente la possibilità di concepire col suo amato marito, lo sceriffo della cittadina – Holston, per l’appunto. Purtroppo, nonostante l’anno di tentativi, quel sogno tanto atteso non si realizza: ciò spingerà Allison in una discesa verso la follia – e chiederà di uscire. Nel mondo al di là degli schermi: un mondo spoglio, spazzato da venti gelidi e aria velenosa. Il loro tragico destino si intreccerà a quello di Juliette Nichols, capo-ingegnere alla centrale energetica del Silo, solitaria e scorbutica ma geniale e devota al suo lavoro (Rebecca Ferguson, già vista in Dune come Lady Jessica).

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Cosa c’è fuori dal Silo?

L’atmosfera della serie diretta da Morten Tyldum, Adam Bernstein e David Semel, è opprimente, claustrofobica, ma ariosa allo stesso tempo: gli spazi nel silo sono giganteschi e minuscoli allo stesso tempo – una quasi infinita scala a chiocciola, di consunto cemento, che si snoda per quasi duecento livelli. Tramite un’eccellente scenografia, apparentemente basata su reali studi architettonici, l’idea che ben 10.000 persone siano stipate in un grattacielo sotterraneo traspare ben poco: il lavoro di Gavin Bocquet, come production designer, è stato eccellente. In Silo, infatti, la claustrofobia è più avvertita dai personaggi che si muovono nel suo ambiente, più che dal pubblico. La scelta di colori e fotografia (diretta principalmente da Laurie Rose – curiosamente, la stessa era stata direttrice della fotografia in un’altra trasposizione di un romanzo distopico, il terrificante The High Rise del 2015) rende l’esperienza realistica e mai noiosa, e mai sfocia nel pietismo: gli abitanti del Silo cercano di vivere al meglio con ciò che possono, indossano abiti colorati fatti a mano (Nina Bertolone alla direzione dei costumi), si abbronzano sotto il sole delle lampade per le coltivazioni, e si sporcano di grosso di motore nei bassifondi della centrale energetica. Nel complesso, l’aspetto scenico credibile contribuisce ad eliminare il sempre sgradevole sentore della sospensione dell’incredulità – e rende passabili alcune scelte narrative discutibili, peraltro assenti nel libro.

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Il deep state nel Silo

Concetto carissimo a molti cittadini dei paesi oltreoceano, il deep state è ciò che si intende per uno stato entro uno stato: il fallimento estremo della democrazia, in quanto i governanti apparenti non contano nulla, così come i voti espressi dai cittadini di quello stato stesso. Tale visione è il fulcro delmondo del Silo: il sindaco, si apprende ben presto, non è altro che una figura di rappresentanza a cui, però, viene fatto credere di possedere il potere supremo. Tale scelta narrativa contribuisce ad incuriosire lo spettatore e a spingere il tasto play dell’episodio successivo, smuovendo la morbosa curiosità del piccolo complottista di quartiere che è presente in ognuno di noi.

I personaggi che si muovono nel Silo

Silo è una serie che possiede un passo veloce, ma eccede in alcune sottotrame di scarsa rilevanza se non puramente folkloristica – come, ad esempio, riguardo la consulente della fertilità, la triste Gloria (Sophie Tompson), il dimenticabilissimo Patrick Kennedy (Rick Gomez) e un personaggio stuprato dalla trasposizione, il sostanziamente inutile Lukas (Avi Nash) – e soffre di una scrittura scopiazzata altrove (Fireflies? Seriamente?) che purtroppo causa alcune cadute di stile ad una sceneggiatura tutto sommato ottima. Apprezzabilissima la figura di Martha Walker (un’eccellente Herriet Walter) come sia presenza materna nella vita di Juliette, che come rappresentazione vivente dell’agorafobia, sebbene si viva in una scatola isolata dal mondo esterno. Incisivo anche il lavoro di Iain Glen (come dimenticare il Ser Jorah di Game of Thrones?), nel ruolo dell’assente padre di Juliette, parimenti a quello del vicesceriffo Marnes (Will Patton). Altrettanto buona è la scrittura dei “cattivi”: giudici, informatici, deep state tutto. Purtroppo, però, è il personaggio principale – quello di Juliette Nichols a soffrire della scrittura peggiore- piccola premessa: ho letto tempo addietro la trilogia del Silo di Hugh Howey e attendevo con ansia tale trasposizione.

Juliette, nella carne della Ferguson, agisce come una maleducata (e anche un po’ psicopatica) per la maggior parte del tempo, nonostante i personaggi che ruotano attorno a lei continuino a darle fiducia e a proteggerla: empatizzare con lei, un personaggo sostanzialmente bidimensionale, è impossibile. Inoltre, la sua repentina trasformazione in eroina da film d’azione a partire dal quinto episodio, dopo una vita passata a stringere bulloni di un reattore che cade a pezzi, risulta estremamente poco credibile e, ancora, fa scadere l’eleganza che caratterizza il lato meramente esteriore e di world-building di Silo.

Silo, prima stagione: recensione 1
Rebecca Ferguson non sorride mai.

In sostanza, però, Silo si va ad unire al filone inaugurato dalla prima, godibilissima stagione di For all Mankind – il vero capolavoro di casa Apple TV – e continuato con Severance: uno show di altissimo livello, con poche lacune, che ci auguriamo fortemente siano colmate con la seconda stagione. Apple Tv ha probabilmente concepito Silo come contraltare action alla più contorta e psicologica Severance: speriamo che tale scelta commerciale non si ritorca contro alla casa di Cupertino.

Giulia Della Pelle
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