Una Moglie (A Woman Under the Influence) è un film del 1974 di John Cassavetes con protagonista Gena Rowlands.
John Cassavetes lo conoscono probabilmente i grandi appassionati di un certo Cinema o quelli che, non ricordando il primo nome, lo confondono col figlio Nick, autore di commediaccie americane. Egli parte dal cinema indipendente, compare come attore in diversi film ( uno anche dell’italiano Montaldo), ma, nel ruolo di regista, passando da strade laterali, segna ineccepibilmente la Storia del Cinema.
“Una moglie” (o meglio ancora le nevrosi di una moglie nella vita di coppia) è il titolo che da a questa sorprendente indagine finanche sociologica sul rapporto di coppia, il volto, le fattezze, la grazia e la disgrazia, la maldestrezza, la spettacolare mimesi facciale e di movimento (in certi casi forse non troppo controllata, un po’ sopra le righe) dell’angelo biondo Gena Rowlands (90 anni quest’anno) una moglie, la moglie (anche moglie nella vita reale di Cassavetes).
Il plot è semplice: una donna fragile ed emotivamente instabile vede nel rapporto col marito, coi figli e col mondo esterno l’impossibilità di essere compresa, il disadattamento.
Ma a Cassavetes non importa giocarsi la carta della storia a sensazione; egli non è un narratore di eventi, quanto piuttosto, con una poesia dell’urlo o del silenzio, un indagatore della complessità che si esemplifica nelle dinamiche familiari, che, come già Bellocchio (leggi qui: Il Traditore) a partire dagli anni ’60 insegnava, portano in sé quelle contraddizioni e quegli scontri che possono toccare indistintamente ogni membro di tale nucleo. A questo proposito, spostandoci nel campo della letteratura, viene in mente la giovane ribelle Marry, nel gigantesco “opus magnum” di Philip Roth “Pastorale americana” (leggi qui: Dove De Andrè incontra Roth), dove, anche qui, un’istabilità, diviene campo minato, e distrugge, a ogni passo, a ogni pensiero, a ogni senso di colpa, tutto ciò che sfiora; la famiglia del Sogno, ci dice Roth, non è felice. Non esistono immuni. Il passato, gli errori, la natura genetica, un disegno o il caso, questo non è importante, come dice nel film Nick, il marito (un gigantesco Peter Falk): “Il passato non è importante”.
E dal volto di Mabel, “Una moglie”, passa la vita di Nick, che sfiora quel disagio,e con un amore quasi incontenibile, lo abbraccia, lo rende motore dell’unione. Un amore fatto di gesti semplici, di sguardi monumentali perché vivi e allo stesso tempo affacciati sull’abisso. Ma vi è anche un orgoglio molto italiano (Nick è un italoamericano), che invade quell’amore senza pregiudizi, sino a violente reazioni: il rimprovero per l’esuberanza di Mabel davanti ai colleghi di lavoro, le urla, e la violenza fisica. È un confine sottile quello tra amore ed incomunicabilità, o meglio tra amore e diversità. È qui che si gioca il film: è possibile stare con una persona che ha disagi mentali? Nick crede di si, ma la doppiezza dei suoi atteggiamenti, ora accudenti, ora atti a respingere, danno uno sguardo complesso, sulla difficoltà di tutti i rapporti. Mabel si muove teatralmente in un limbo di sbalzi d’umore, dove diventa bambina insieme ai suoi figli, che, in silenzio, vedono il disagio progredire, vedono una diversità, e, nel momento della crisi che la porterà a passare sei mesi in comunità, se ne prendono cura. Mabel soffre soprattutto una solitudine che è propria di tutti gli uomini, ma che solo una natura sensibile può percepire a quei livelli. Vuole gente intorno, cerca le attenzioni di un marito che la ama e la respinge, chiede come una cosa rotta ai suoi figli:
“La mamma è scema?”
C’è una tragedia, classica, greca, in cui gli affetti si sfiorano senza mai incontrarsi; una rottura irrompe finanche nell’avvicinarsi del corpo, come quando Nick e Mabel, marito e moglie, nel letto vengono interrotti dall’irruzione dei figli accompagnati dalla nonna. L’apice di quest’abisso si verifica quando Mabel ha una crisi di nervi. Qui una splendida rappresentazione di Cassavetes, nell’immagine che corre da un viso all’altro, che potentemente restituisce il caos della moglie, che di riflesso tocca il marito, e la madre di lui e il dottore, esplora la fatica paranoide in cui i legami si capovolgono e tutto diventa terrore, per Mabel, ma anche per Nick, che insulta il dottore che vuole darle un tranquillante; mentre la madre di Nick o meglio le urla di questa, si riempiono dell’odio di chi non sta con le emozioni, ma agisce, e in quest’agìto distrugge, respinge, emargina.
Il finale restituisce una Mabel (dopo sei mesi di comunità) confusa, esuberante e triste, fintanto che gli ospiti saranno cacciati da Nick, e soli, marito e moglie, in una straziante ultima sequenza, senza guardarsi, come se tutto andasse bene, sistemeranno la cucina, in silenzio, nel teatro dell’assurdo, dove il fondo certe volte risucchia. E non si vive: si vivacchia.
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