Oggi ricorre l’anniversario della morte di Stefano Cucchi, che il 1 ottobre scorso avrebbe compiuto 42 anni.
Per far sì che la storia di Stefano non fosse dimenticata, nel 2018 è stata realizzata la pellicola, Sulla mia pelle, presentata per la prima volta nella serata d’apertura della 75° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia tra i lunghi applausi del pubblico.
Diretto da Alessio Cremonini, il film si dimostra straordinariamente fedele a quanto accaduto, a metà tra la denuncia e il racconto nei dettagli degli attimi di solitudine e di dolore che Stefano è stato costretto a vivere in modo rispettoso ed empatico.
A raccontare l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi è uno straordinario Alessandro Borghi.
“Ho dovuto mettere da parte la rabbia che provavo, per restituire un ritratto autentico. Ora sento tutta la responsabilità di questo film”.
Vi avverto: ogni singolo istante è una vera e propria pugnalata al cuore. Crudo, realistico e straziante il modo in cui viene raccontata la storia di Stefano, ma che ognuno di noi dovrebbe conoscere e non limitarsi semplicemente ad averne sentito parlare.
L’inizio della fine comincia il 15 ottobre del 2009 quando Stefano Cucchi viene arrestato dai Carabinieri che lo conducono in stazione, dopo essere stato trovato in possesso di droga.
Dopo un breve visita a casa dei genitori, viene riportato in caserma, ed in particolare in una stanza con la forza, Stefano riporta degli ematomi al volto. Nella notte si sente male, avverte la guardia di turno ma si rifiuta di essere portato in ospedale.
La mattina dopo viene portato in tribunale, e rifiuta nuovamente di farsi vedere da un medico nonostante gli evidenti ematomi sul volto. Al processo riesce a parlare seppur con qualche difficoltà, gli viene negata la richiesta di avere il suo avvocato e gli viene affidato uno d’ufficio, poi il giudice stabilisce che Stefano debba rimanere in custodia cautelare al Regina Coeli.
Viene visitato e vengono messe a verbale le fratture e le lesioni che riporta su tutto il corpo. Una volta arrivato in carcere, ammette ad alta voce di essere stato picchiato dalle autorità. Il medico interno lo manda in ospedale per fare delle lastre e lo esorta a dire la verità su quanto accaduto. Rientrato in carcere non passerà molto tempo prima di rendersi necessario un trasporto d’urgenza in ospedale a causa del peggiorare delle sue condizioni.
Una volta all’ospedale carcerario gli viene messo il catetere e a causa dei dolori non riesce a mangiare. Stefano continua imperterrito a rifiutare le cure e ad insistere di poter vedere il suo avvocato, senza riuscire a vedere il suo desiderio esaudito.
Le sue condizioni precipitano e la mattina del 22 ottobre, l’infermiere che avrebbe dovuto fargli un prelievo lo trova ormai senza vita.
Stefano ha passato un’intera settimana da solo, schiavo di dolori inimmaginabili e spaventato a tal punto da non riuscire ad avere il coraggio di denunciare i mostri che lo avevano ridotto in quel modo.
Stefano non ha potuto vedere i genitori e la sorella per un’ultima volta, non ha potuto spiegargli cosa era successo, non ha potuto contare sull’aiuto del suo avvocato, ha dovuto insistere per avere le medicine per curare l’epilessia di cui soffriva. Prima di morire, l’ultima cosa che ha chiesto è stata la cioccolata.
Stefano era caduto nella spirale della tossicodipendenza, come tanti del resto, ma non per questo meritava di essere trattato come un criminale, non per questo meritava di non essere trattato come un essere umano. Non era un santo, dopotutto chi lo è oggigiorno, non era un martire, ma piuttosto una vittima dell’omertà e dell’indifferenza.
Quello che però Sulla mia pelle non racconta sono le dure fasi del processo che sono seguite all’ultima settimana di vita di Stefano.
Ci sono voluti 7 anni di processi, ben 45 udienze e 120 testimoni che sono stati ascoltati per consegnare alla giustizia quanti hanno fatto del male a Stefano.
Ma alla fine la giustizia ha prevalso.
Dodici anni di reclusione ad Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per omicidio preterintenzionale. Tre anni e otto mesi a Roberto Mandolini e due anni e sei mesi a Francesco Tedesco per falso. Sono queste le condanne ai carabinieri imputati nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi così come sancite dalla sentenza della Prima Corte d’assise del Tribunale di Roma.
Quanto accaduto ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica e per evitare che una cosa del genere possa ripetersi e per dare una voce a tutti gli Stefano, ultimi tra gli ultimi, è stata creata un’associazione omonima che ci invita a combattere per i diritti umani.
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