Può una docu-serie sul basket diventare il fenomeno mediatico di questa primavera 2020? Netflix, con The Last Dance, ha deciso che la risposta è un sonoro “sì”, conquistando appassionati e non appassionati. Ma andiamo per gradi.
Michael Jordan è semplicemente una vera e propria leggenda. Sportivo di fama globale, il suo nome ha trasceso l’ambiente del basket e dello sport in generale, trasformandolo in una icona che, dopo quasi vent’anni dal suo ritiro definitivo, è lungi dall’essere dimenticato. Difficilmente, chiedendo chi sia Michael Jordan, qualcuno non saprà rispondere. Pochi atleti possono vantare risultati di questo tipo: il fenomeno Michael Jordan, negli anni ’90, ha fatto sì non solo che Nike iniziasse a produrre le celebri Air Jordan, ma persino che Warner Bros. producesse un film con il cestista protagonista insieme ai Looney Tunes, l’amatissimo Space Jam. Una vera e propria incarnazione degli anni ’90.
Perché The Last Dance?
Dicevamo, poco più sopra, di una leggenda. Leggenda perché i suoi record sono a dir poco incredibili, ma ancora di più è stata la sua carriera sportiva, con uno spettacolo messo in campo in grado di attirare gente da ogni parte del mondo. Gli anni ’90 hanno visto la costruzione del mito dei Chicago Bulls, con una squadra guidata da Michael Jordan che ha raggiunto risultati a dir poco inaspettati. Proprio intorno a Jordan e ai Chicago Bulls è stata realizzata The Last Dance, una serie-documentario in cui vengono mescolate interviste e materiale dell’epoca nel ricostruire sia la carriera di Michael Jordan, sia l’ultima stagione della leggendaria formazione dei Chicago Bulls di quegli anni.
The Last Dance è un nome che viene proprio dall’ultima stagione, quella del 1997/1998, con il loro allenatore che diede questo nome al manuale delle strategie della squadra. Un ultimo ballo con cui cercare di consacrare il mito di quella memorabile squadra.
The Last Dance in dieci puntate scrive la storia di questo mito, in una maniera non troppo sportiva, quanto piuttosto “umana”. Ciò che convince è il focalizzarsi sui contrasti, sui legami, sull’umanità degli atleti e delle persone che ruotavano intorno alla squadra in quegli anni, cercando di mostrare le diverse prospettive che finivano inevitabilmente per intersecarsi.
Anche la struttura del racconto aiuta a ottenere un effetto a dir poco perfetto, in maniera circolare: un sapiente utilizzo dei flashback fa sì che, mentre si racconta l’ultimo anno di questo fantastico team, se ne ripercorrono le tappe, dall’arrivo di un giovanissimo Michael Jordan nel 1984. Non solo i successi dei Chicago Bulls, ma anche la lenta quanto inarrestabile ascesa, fino a chiudere il cerchio proprio con quella che ancora oggi viene chiamata The Last Dance.
Netflix riesce a vincere, con questa docu-serie, per diversi motivi. Da un lato è vero che parlare degli anni ’90, oggi, si rivela vincente, per un effetto nostalgia notevole. Ma non basterebbe a giustificare il successo di queste dieci puntate, pubblicate due alla volta a cadenza settimanale: il binge-watching e l’effetto nostalgia, insieme, avrebbero fornito le basi per il successo delle prime puntate, ma non abbastanza per le ultime. Cos’altro c’è di così coinvolgente in The Last Dance?
A convincere è lo spirito del mito, portato sullo schermo e fatto rivivere nel migliore dei modi, mostrando al pubblico non solo lo show del parquet, ma anche i dietro le quinte, il mondo dietro la realtà dorata dell’NBA. Il desiderio di vincere, l’immortalità della vittoria, la fame di trofei: la leggenda di Michael Jordan e dei Chicago Bulls non può non affascinare e coinvolgere, sia che si sia appassionati di basket che si sia semplici curiosi. Il tutto con l’incredibile risultato di far rimpiangere, a chi non ha potuto viverla, una straordinaria epoca d’oro della pallacanestro.
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