Tutti ne parlano, e allora abbiamo deciso di parlarne anche noi. Perché l’arte è cultura e come tale, non prescinde dalla quotidianità e dai fatti che hanno segnato un’epoca. Stiamo parlando del G8 di Genova del 2001, quei maledetti 4 giorni intercorsi tra il 19 luglio e il 23, in cui – oggi – esattamente 20 anni fa, un giovane veniva ucciso, mentre faceva ciò che la Costituzione italiana sancisce all’articolo 20: manifestava!
E allora noi vogliamo darvi un altro punto di vista, il nostro, affinchè la staffetta del passaparola possa giungere anche a chi quegli anni non li ha vissuti, o era troppo piccolo per ricordarli, e far si che il seme della memoria germogli nelle coscienze di ognuno di noi, e ci permetta di evitare altre atrocità gratuite come quelle perpetuate in quel weekend.
Nel gennaio 2011 ho incontrato un giovane ragazzo napoletano, un idealista, un aspirante architetto con nel cuore un mondo più ecologico e a misura d’uomo, e la giustizia sociale, quella vera, teorizzata nei centri sociali e applicata durante le manifestazioni; un nipote di Berlinguer. La prima volta che mi ha chiesto di uscire mi ha portata allo “Ska”, un centro sociale occupato, al concerto dei 99 Posse, dove si teneva una raccolta fondi e di materiali per l’imminente partenza verso la Palestina, per dare supporto umanitario ad un popolo dilaniato dalla guerra.
Quello stesso uomo, che chiamiamo R. per praticità, in una delle nostre lunghe chiacchierate a tema ambiente e globalizzazione, mi è subito apparso chiaramente angosciato e quasi arreso ad una prospettiva che nulla sarebbe più cambiato, il quale mi ha raccontato di essere stato picchiato dalla polizia durante il vertice del G8 a Genova nel 2001. Aveva solo 14 anni e mezzo, si trovava in quella maledetta scuola e stava dormendo, appoggiato sull’unico bagaglio a sua disposizione: una felpa.
Quattro anni dopo, R. soffriva ancora degli effetti fisici e psicologici di quel selvaggio attacco mentre mi raccontava le sue ferite: denti rotti e poi ricostruiti, la milza quasi collassata e tre punti sulla fronte. Oltre all’impatto emotivo dato dalla messa a dura prova di quegli ideali che a 14 anni senti forti in te come tua vera ragione di vita.
Ma cosa successe a Genova in quei giorni?
Per chi si fosse dimenticato o si fosse perso i numerosi documentari realizzati al riguardo, il vertice del G8 del 2001 convocato a Genova, con la presenza di presidenti illustri come George Bush, Jacques Chirac e naturalmente Silvio Berlusconi, neopresidente della nazione ospite aveva come filo rosso quello di discutere delle politiche economiche mondiali e dello stato della globalizzazione. Al fronte opposto c’erano i manifestanti di tutto il mondo, mossi da un sentimento No-Global già attivo da almeno un anno, dal vertice di Seattle, riuniti in città, per affermare a gran voce che “un mondo diverso fosse possibile”.
Un movimento No-Global composto dalle tute bianche, dai ragazzi guidati dal Social Forum di Genova, dai centri sociali di mezzo mondo e dalle mele marce infiltrate, i black blocks pronti a sfilare per far sentire la propria voce in favore di un mondo più verde, un’immigrazione più giusta e un socialismo vero.
Qualcosa però è andato storto, nonostante la “zona rossa” super blindata che circondava le aree del vertice politico e l’impossibilità di essere raggiunte dal corteo, la polizia ha represso i manifestanti in marcia organizzando la carica più ampia della storia, ha aperto il fuoco e ucciso uno di loro, Carlo Giuliani, un attivista provvisto di passamontagna non suo, raccattato nella bolgia per proteggersi dai lacrimogeni. La notte successiva, con le manifestazioni finite e i manifestanti in procinto di lasciare la città la mattina dopo, la polizia, ancora insoddisfatta, ha fatto irruzione nella scuola Diaz-Pascoli, che fungeva da dormitorio per i manifestanti in uscita, fingendo di cercare i black blocks e dando il via ad una vera e propria mattanza.
Tutti all’interno sono stati brutalmente picchiati, R. compreso, molti hanno riportato ferite gravi, alcuni sono stati portati in ospedale, altri, ancora sanguinanti, sono stati trascinati per ulteriori indagini e percosse nella caserma di Bolzaneto, mentre la polizia ha fabbricato prove per dimostrare ai media che avevano davvero catturato potenziali terroristi che trasportavano armi e bottiglie molotov.
R. ovviamente trovava difficile parlare di quello che era successo – anche con me che ero la sua compagna – e quando ci provava, tremava molto e spesso sembrava vicino alle lacrime.
“Non hai mai visto niente del genere, non puoi nemmeno lontanamente immaginare“, mi ha ripetuto più volte negli anni di convivenza.
In effetti, non avevo idea di cosa fosse realmente accaduto a lui e a più di 100 altri giovani attivisti che il 21 luglio 2001 decisero di pernottare nella scuola Armando Diaz di Genova e nel plesso gemello, a 100 metri dalla tana del lupo.
Diaz – Non pulire questo sangue
Ma tutto è diventato più chiaro, ho finalmente capito cosa hanno sofferto R. e tanti altri quando ho visto il film Diaz – Non pulire questo sangue, su Netflix. Le scene in cui la polizia armata di manganello picchiava indiscriminatamente i giovani indifesi, tutti apparentemente innocenti di qualsiasi crimine, erano quasi impossibili da guardare.
Se non fosse per il fatto che, dopo un interminabile processo giudiziario, alla fine 25 agenti sono stati condannati per lesioni personali gravi, diffamazione e falsificazione di prove, potresti essere perdonato per aver pensato che fosse un film agit-prop che esagerava quello che è successo.
Mark, un giornalista britannico di Indymedia, è raffigurato nel film perché ha avuto la sfortuna di essere il primo ad essere aggredito dalla polizia. Era corso fuori dalla scuola per assistere alla squadra di 300 poliziotti che irrompeva attraverso i cancelli.
Il suo coraggioso sforzo di denuncia si è concluso con lui che è stato bastonato a terra, preso a calci brutalmente da diversi poliziotti e lasciato in coma mentre gli agenti lo caricavano nella scuola.
In tutto, 93 persone sono rimaste gravemente ferite. Si trattava, ha affermato Amnesty International – come citato nel film – della “più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla seconda guerra mondiale”.
Mark è stato finalmente vendicato, in una certa misura, quando il ministero degli interni ha accettato nel settembre 2012 di pagargli un risarcimento di € 340.000 in un accordo extragiudiziale.
In cambio, Mark, che sta ancora soffrendo per le ferite riportate, ha dovuto accettare di far cadere il procedimento contro il governo italiano presso la Corte europea dei diritti umani. È anche l’unico dei 93, finora, ad aver ricevuto i suoi soldi.
L’accordo è arrivato tre mesi dopo che la più alta corte italiana ha confermato le condanne di 25 agenti per lesioni personali gravi, diffamazione e falsificazione di prove.
Ma nessuno di loro andrà mai in prigione per i suoi crimini. Alcuni alti ufficiali sono stati sospesi per cinque anni a causa di incapacità operative, ma tutte le condanne sono state ridotte dalla prescrizione.
Il docufilm di Daniele Vicari, Vincitore del David 2012, è una rappresentazione accurata degli eventi. Si basa su 10.000 documenti del tribunale e sulle prove di vittime e testimoni oculari. Un occhio davvero realistico sui fatti di quei drammatici giorni. Il film franco-italiano-rumeno ha vinto anche un premio al festival di Berlino.
Stamane, discutendo tra noi editori, Isabella mi ha restituito un pensiero che ella stessa ha riportato nella sua tesi di laurea, circa i fatti di quei giorni, e che ho il privilegio di poter condividere anche con voi.
“A otto anni alcune immagini non si dimenticano.
Non si dimentica la parola black bloc ripetuta fino allo sfinimento e la carica dei carabinieri sul corteo e i bossoli di colpi sparati dalla polizia mostrati in bella vista a “Porta a Porta” e Gianfranco Fini sottolineare che Carlo Giuliani aveva in mano una bombola d’ossigeno perché “io lo so che sono un sub” e la squadra antisommosa entrare come bestie nella scuola Diaz e i ragazzi ridotti carne da macello e il corpo di Mark Covell preso a calci come una lattina di spritz e “faccetta nera” o “un due tre viva Pinochet” fatta ascoltare ai fermati e le telecamere dei giornalisti buttate per terra e le minacce di stupro alle ragazze portate in caserma e le bugie per inquinare i fatti e la soddisfazione nella frase “uno a zero per noi” dopo la morte di Carlo Giuliani e il silenzio-assenzio del giorno dopo. Non si dimentica la complicità della politica che non è stata Stato.
A otto anni sapevo qual era la parte giusta e quella sbagliata.
A otto anni sapevo che quelli non erano solo dei poliziotti esaltati.
A otto anni sapevo che quello era una sospensione dello stato di diritto. Era una storia di fascismo. Di nuovo.”
Oggi, vent’anni dopo, i temi dei no-global appaiono più attuali che mai: il dissesto idrogeologico e le alluvioni del nord Europa rendono ancora più evidente che stiamo distruggendo il pianeta di cui siamo ospiti; le violenze operate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere rendono lampante che le mattanze da parte delle forze armate non sono episodi incasellabili come “legittima difesa” in un paese costituzionale, ma veri e propri protocolli d’azione. E che forse aveva ragione R. quando aveva perso le speranze verso un mondo migliore, un sogno infranto a soli 14 anni, in quella che dovrebbe essere la culla della democrazia, l’Italia.
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