1961 – 1981 – 2020: come Montale previde l’arte (e l’uomo) del futuro

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Trentanove anni fa, il 12 settembre 1981 si spegneva Eugenio Montale. Da tutti conosciuto come il poeta ligure dell’ermetismo, studiato (ma mai abbastanza) nelle scuole tramite i suoi primordiali “Ossi di Seppia”, non molti sono a conoscenza di quella che era la reale attività lavorativa e collaterale di un personaggio controverso e che, in sé, nasconde molto più di quanto possiate immaginare.

Di fatto Montale “per poter mangiare” continuando a produrre arte, anche se ad ampie zampate temporali, fin dai suoi primordi si impegnò nell’attività editoriale e giornalistica

Noto critico artistico e letterario, reinventatosi traduttore durante il soggiorno fiorentino nel periodo del ventennio, fin dalla più giovane età Montale alternò, anzi, supportò il suo impegno artistico con quello di critico e “opinionista”.

Già, gli opinionisti mediatici non sono roba del ventunesimo secolo, ma già nel 1900 vi erano volti noti del mondo intellettuale e culturale italiano che, messi a libro paga delle testate giornalistiche più note, prestavano le loro spesso pungenti riflessioni al mondo della carta stampata. Vedasi, oltre a Montale, l’arrabbiato Pasolini, il critico Umberto Eco (LINK) o il purtroppo frainteso Sciascia.

Personaggi, questi ultimi, spesso impegnati più sull’opinione e l’analisi sociale che non artistica. Con Eugenio Montale, invece, ci ritroviamo di fronte ad un profilo in grado di concentrare critica sociale e artistica in un unicum capace di immortalare ed anticipare il progresso e il cambiamento della società, individuandone quel sottile e strettissimo filo che lo legava all’ascesa dell”’homo novus” (o homo ludens, per citare sempre il poeta ligure).

Avendo scritto la mia tesi di laurea proprio su tale argomento, so bene quanto sia difficile poter dire di aver compreso le parole di un uomo così “ambiguo”, oscuro, talvolta cinicamente ironico e decisamente “conservativo” come Montale. Va detto però che nelle sue pubblicazioni, in particolar modo quelle raccolte nell’era più tarda del post fascismo tra le pagine del Corriere della Sera (Auto da Fè ndr.), tra contenuti più o meno fraintendibili si riescono ad individuare alcuni concetti critici impossibili da fraintendere.

Su tutti, come detto in precedenza, quelli ben poco “edulcorati” riguardanti il mondo dell’arte ed il suo progresso. E’ evidente che la nuova natura “consumistica” della società avrebbe cambiato tanto l’uomo quanto, di riflesso, l’espressione artistica di quest’ultimo. Potrebbe però sembrare meno scontato il poter vedere, già a cavallo tra anni 50 e 60, il riflesso di quel mondo che ci saremmo ritrovati ad affrontare proprio oggi 12 settembre 2020.

Eugenio Montale

Per Montale l’emergere dell’onda consumistica nel mondo della musica e della letteratura era una visione quasi “apocalittica”

La visione di un mondo che, svuotato dalla ricerca di concetti, si appoggiava principalmente alla necessità di creare prodotti nuovi, non necessariamente innovativi, ma in grado di attrarre l’attenzione del consumatore anche solo per quel breve tempo necessario a mantenere attivo il motore “succhia danaro” dell’industria di turno.

Così il libro viene filtrato nell’idea di Montale divenendo un prodotto che scotta, che brucia i polpastrelli nelle mani di una società che ha bisogno di toccarlo quel poco che basta per poter dire di “averlo posseduto” (seguendo ovviamente le influenze della moda e della tendenza che già a quell’epoca erano non di poco peso) per poi sbarazzarsene nel minor tempo possibile, abbandonandolo ad impolverare sugli scaffali di una libreria come fosse un oggetto pericoloso, da tenere quanto più possibile lontano.

Così la musica, mondo a cui Montale era sempre stato estremamente vicino (studente di canto, nello specifico baritono, già in tenera età, appassionato di opere liriche e musica classica di cui recensiva spesso rappresentazioni e concerti), nella sua evoluzione più “elettronica” e sperimentale secondo la visione del poeta ligure (in questo caso forse un poco fuori dal binario del reale) diveniva vuota, persa nella necessità di creare nuovi suoni ancor prima che di comunicare nuove (o vecchie) sensazioni.

Se quanto detto sulla musica risulta in parte eccessivo (e chi meglio di chi di musica ne fa da qualche anno può saperlo), la riflessione sul mondo dell’editoria e, in generale, sull’abitudine al consumo della società del tempo mette in luce dei particolari non solo preoccupanti ma tremendamente attuali

Tra volute forzature, esagerazioni dovute al conservatorismo insito nel personaggio e parole infiammate Montale cercherà sempre di mettere in luce la pericolosità di un mondo sulla via dell’evoluzione “in velocità”

Un’evoluzione dal taglio futuristico così repentina e scavezzacollo nei ritmi degli stili di vita da non riuscire a permettere alla mentalità sociale di abituarsi ad essa, costringendola quindi a “svuotarsi” del pensiero critico (zavorra che rallenta e costringe ad osservare troppo a lungo) a costo di rimanere in ritmo.

Così, nell’immaginario di Montale, non solo i libri scottavano e le opere si svuotavano, ma sparivano dalle tavole imbandite i grossi fiaschi di vino (troppo lenti da consumarsi), svanivano le lunghe villeggiature nelle case di campagna sostituite dalle vacanze “mordi e fuggi” al mare e perdevano di consistenza anche gli stessi viaggi in treno, un tempo lenti e poi sempre più rapidi.  

Un modo di vivere, quello della gioventù montaliana, lento e che nella sua lentezza costringeva all’osservazione e alla riflessione. Ma cosa succede quando i ritmi di vita accelerano repentinamente noncuranti, invece, del tempo di “evoluzione” dell’animo umano?

E così che, secondo Montale, nasce “l’uomo massa”, l’essere umano dell’era del consumismo o anche, con riferimenti kafkiani, l’Odradek.

Un essere umano “informe”, privo di una reale struttura pensante piena. Vuoto, facilmente indirizzabile dai venti delle tendenze, dei cambi di abitudine imposti dai nuovi media (televisioni e cinematografi su tutti).

Così, andando a svuotarsi l’animo umano, sempre più impegnato a mantenere i ritmi veloci del consumismo, andava anche a diminuire la capacità di analisi critica e, in stretta conseguenza, la qualità artistica. Se anche l’idea, secondo il poeta ligure, diveniva bene “commerciabile”, di tendenza, da mantenere fintanto che appoggiata da un “luminare del momento” per poi gettarla istantaneamente quando sostituita nella coscienza pubblica da una nuova, come poteva la nuova arte, prodotta dal nuovo uomo, divenire di maggior spessore?

E come potevano, soprattutto, i “pensatori”, quei lenti esseri umani che Montale posizionava tra gli “intellettuali”, insediarsi in una società così avversa alla loro natura e alla loro abitudine e da cui, sempre per il poeta ligure, troppo facilmente si veniva allontanati e ostracizzati in quanto “diversi?”.

Venivano così a cambiare i presupposti dell’arte, si, ma anche dello stesso artista

Cambiavano le necessità, ormai settate sulla vendibilità in gran quantità, e cambiando queste cambiavano anche i contenuti, secondo Montale sempre più frivoli, proprio per quel bisogno di rapidità tanto nella fruizione quanto nella produzione.

E così, Montale, tra le pagine del Corriere della Sera tra cinici scherni ed infiammate invettive, in qualche modo inquadrava lo scheletro (anzi, gli “Ossi”) dell’industria artistica moderna, ove l’arte, quella di più ampio respiro, diviene solo prodotto di commerciabile tendenza mentre la ricerca artistica vera, quella delle nicchie, verrà sempre e comunque influenzata dalle necessarie regole di un mercato che vuole vedere l’artista sempre più capace di arrivare alle masse ancor prima con la sua impostazione e atteggiamento che con la sua musica.

Allo stesso modo il poeta ligure anticipa la flessione di quel mercato editoriale che, perdendo di consistenza nel tempo, sta andando sempre più a svanire, scivolando come sabbia tra le nostre mani con una cultura mondiale sempre meno avvezza alla lettura del libro e l’incapacità di vedere emergere volti nuovi della letteratura (meritevoli) dalla matassa della nicchia, così da poter diventare “un nuovo grande nome”.

Verrebbe da pensare che, forse, la più grande opera Montaliana non risieda nella sua brillante e toccante poesia, quanto nella sua capacità di osservatore che, anche se non privo di difetti e non esattamente super partes, con il suo occhio aguzzo è riuscito non solo a regalarci una fotografia estremamente sensibile dei cambiamenti del tempo ma anche una realistica anticipazione di quello che saremmo diventati noi oggi. Noi uomini di massa, noi “homo ludens”, noi Odradek, noi compratori di libri (e canzoni) che scottano ma, soprattutto, noi uomini nuovi sempre più estranei a quel mezzo lento e farraginoso che, nella storia, tante vite ha cambiato: lo spirito critico.

Leggi anche: Bauman, Montale e Kojima: il dissolversi dell’arte nella società liquida

Lorenzo Natali
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