Resoconto ed interviste del Camp Saifam

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Lungo questa prima settimana di Ottobre si è tenuto all’interno dell’Hub creativo LePark, a Milano, il primo Camp di autori organizzato da Saifam.
Siamo andati a trovarli la mattina di Giovedì 3 Ottobre, in via Sismondi 50: ci ha accolto Roberto Mancinelli, fautore del camp, nonché direttore artistico della sezione editoriale di Saifam e fondatore di iMean Music Publishing & Management, che, molto amichevolmente, ha aiutato a chiarirci le idee.

Roberto Mancinelli: “Oggi è necessario per gli artisti tornare a incontrarsi di persona.”

“I Camp, e specialmente questo, nascono in virtù dell’idea di fare una sorta di mix-and-match tra talenti di diverso tipo”, dice.
“Sono fermamente convinto che al giorno d’oggi sia necessario per gli artisti tornare a incontrarsi di persona, condividere fisicamente degli spazi: la tecnologia è straordinaria, facilita le connessioni, ma al contempo separa, rende i rapporti più asettici; potrei farti numerosi esempi di rapporti tra un cantante e un autore, o cantante e produttore, che quasi nemmeno si incontrano mai di persona, prima dell’uscita del loro pezzo: a volte può funzionare, ma le grandi canzoni, i dischi storici, sono sempre nati dall’incontro fisico di artisti, è anche un lavoro di empatia, è fondamentale.
Il mio ruolo qui, in quanto direttore artistico, è quello di far conoscere vari artisti e riuscire a combinarli tra loro in maniera quanto più equilibrata ed eterogenea, in modo che si possano complementare a vicenda.”

È un progetto destinato a continuare?
“Vogliamo creare un camp perenne, è un’esperienza che desideriamo si ripeta molto spesso, già quest’anno abbiamo in programma otto camp di questo tipo.
L’elemento davvero speciale è che qui non esistono casacche, la nostra visione è quella di mescolare tra loro i migliori talenti, farli comunicare in modo tale da produrre delle canzoni convincenti. E tutto ciò a prescindere dalle etichette le strategie si sceglieranno successivamente, l’importante è creare.”

Andrea Roveroni: “Moltissimi talenti hanno la possibilità di esprimersi molto facilmente, però non hanno strutture d’appoggio.”

Mentre Roberto ci mostra i vasti e vari spazi della struttura che ospita il progetto, lungo una serie sterminata di sale di registrazione e spazi creativi, incontriamo Alberto Roveroni, tra le altre (moltissime) cose General Manager e Co-Fondatore di Le Park, così decidiamo di fermarci e scambiare due parole anche con lui.
Ci racconta che viene dal mondo della produzione musicale, che ha iniziato a 18 anni e che negli ultimi nove si è occupato di discografia nell’abito major.
La sua esperienza -continua- è sempre stata quella di unire la visione della produzione con la visione artistica.

Da dove nasce l’idea di LePark?
“Negli ultimi anni era palese che fossimo di fronte a uno dei grandi cambi ciclcici dell’industria, quindi, invece di piangerci addosso in preda alla nostalgia dei bei tempi andati, abbiamo provato a capire dove l’industria si stesse dirigendo.
E quello che abbiamo visto è che si è di fronte a un periodo nel quale come non mai il talento è libero di esprimersi, persino dalla propria cameretta: basta un laptop, o un iPad di ultima generazione, e si riesce a produrre la propria canzone, fare da ufficio stampa e promuoverla, tutto da soli.
Questo è straordinario, ma d’altra parte ha portato alla chiusura di alcune grandi strutture preesistenti, oltre che al cambiamento economico in termini di revenew, poiché i dischi non si vendono più, si guadagna con i concerti. E poi ovviamente c’è lo streaming, che permette di gudagnarsi una grandissima visibilità, ma monetizza poco.
Tutto ciò si è tradotto in un vero e proprio nomadismo digitale, moltissimi talenti possono esprimersi velocissimamente, però non hanno strutture d’appoggio.” È un fiume in piena: “Noi abbiamo creato una struttura fisica che fosse in grado di fungere come una sorta di coworking che possa aiutare gli artisti a completare una serie di fasi lavorative che altrimenti spesso avverrebbe a casa loro, causa mancanza di budget. Per quello forniamo spazi di diverso tipo: sale di registrazione, sì, ma anche sale riunioni, oppure sale posa per i video. Ci siamo andati a collocare in una fascia che di fatto non esisteva.”

Si può dire che al di là del fornire gli spazi in sé, la vostra vocazione sia il networking.
“La creazione di connessioni è stato un qualcosa di voluto, ma allo stesso tempo assolutamente spontaneo, non a caso il nostro slogan è “Incontrare, connettere, produrre”.
Mettendo a disposizione spazi di diverso tipo, ci siamo resi multidisciplinari: parliamo con le etichette, con le major, ma anche con architetti, videomaker, e persino con alcuni programmi televisivi, come The Voice e X-Factor.
Il movimento è duplice: la grossa azienda ha bisogno di contenuti tanto quanto l’artista ha bisogno di qualcuno che ne usufruisca.
E per adesso sta ripagando, considerando che dopo solamente poco più di un anno dall’apertura contiamo già un’ottantina di partnerariati.”

Avete in mente altri progetti di questo tipo, oltre ai vari camp che si susseguiranno i prossimi mesi?
“Stiamo lavorando anche su una serie di incontri periodici, che partiranno verso fine anno: incontri tra autori, multidisciplinari, una sorta di caffè per addetti ai lavori.
Sarà utilissimo nella creazione di ulteriori connessioni, specialmente quel tipo di incontri che altrimenti sarebbe impossibile creare, perché soprattutto per gli emergenti, chiamare direttamente un artista di un certo calibro può mettere in soggezione. È un format che negli US funziona molto.”

Andrea Amati: “In questo camp stanno convivendo moltissime energie nuove che si mescolano insieme.”

Lasciamo che Alberto torni in ufficio, e nel frattempo scendiamo al piano sotterraneo, dove, all’interno dei vari studi di registrazione, gli artisti già hanno cominciato a lavorare, in gruppi di due, di tre, di quattro.
Una delle porte è aperta, entriamo a dare un’occhiata e scattare qualche foto.
Ovviamente, ne approfittiamo per disturbare e fare due chiacchiere con un paio degli autori presenti, prima che tornino a lavorare.

Andrea Amati, bresciano, ci parla con la tranquillità di chi da vent’anni lavora con la musica e con le parole: partendo dalla Sony, passando -tra le altre- dalla Werner Chappell per poi approdare, nel 2019, alla Saifam, Andrea ha scritto per artisti del calibro di Nek, Emma Marrone, Annalisa, Franco Califano, Elodie, Lorenzo Fragola e molti altri.
Gli chiediamo il perché della scelta di questa nuova esperienza alla Saifam.

“Mi sono addentrato in questa nuova sfida con un gruppo un po’ più piccolo, anche se molto solido, perché cercavo uno stimolo: volevo mettermi in gioco, e ci sono riuscito, confrontandomi con delle realtà nuove, con autori molto più moderni, creando canzoni attuali e riuscendo a mettere la mia esperienza al servizio di un approccio in linea con la contemporaneità.
In particolare in questo camp stanno convivendo moltissime energie nuove, che si mescolano, dando alla vita canzoni molto belle: collaborare vis a vis è fondamentale ma non accade spesso, queste opportunità sono un qualcosa di molto prezioso.”

Su quali suoni stai lavorando in questi giorni?
“Ho scritto una canzone con Lorenzo Vizzini, un autore molto importante, molto bravo: è un brano interessante, abbastanza vicino alle sonorità di Annalisa, se proprio vogliamo etichettarlo. Ovviamente si parte dalla stesura, ma poi non ci si ferma lì, soprattutto oggi la produzione è una parte decisamente importante del processo creativo.
Da ieri poi ho cominciato a scrivere con due autori giovani, strepitosi: un produttore e un’autrice di testi, per la precisione.
E da questo incontro sta nascendo una cosa completamente diversa, una canzone che è nata quasi come ballad, ma che, con l’apporto del produttore, sta diventando un qualcosa di molto internazionale, eccentrico.
È questo il segreto e la forza di questi camp, e cioè mescolare energie molto diverse.”

Prima hai parlato dell’importanza dei produttori: come interpreti il fenomeno degli ultimi anni che li vede sempre più protagonisti, sottraendoli all’ombra in cui vivevano prima?
“Da autore dovrei dirti che la vedo negativamente, perché si firmano sui brani”, ride. “A parte le battute, in realtà è giustissimo: se un brano scritto 15-20 anni fa poteva reggere anche con il semplice apporto di un pianoforte, o una chitarra, e la voce, e l’arrangiamento si adattava in modo funzionale a questo, oggi invece si parte molto spesso da dei beat.
Per cui l’idea sonora stessa parte da un produttore e costituisce la colonna portante di un brano.”

Cosa ti porterai dietro da questa esperienza?
“Un piccolo aneddoto. I primi due giorni è venuto Maurizio Fabrizio, che io reputo essere forse l’autore numero uno, tra i numeri uno della storia della musica italiana: tanto grande, quanto umile. Un’umiltà, una gentilezza, una sensibilità incredibili, senza pari; come autore nessuno può mettere in discussione sia un grandissimo, ma oltre a questo mi ha davvero colpito come persona, meraviglioso. È una straordinaria lezione per i ragazzi che iniziano.”

Marco Colavecchio: “I camp sono interessanti proprio perché si combinano delle alchimie pazzesche, inaspettate.”

Ci sediamo poi al tavolo con Marco Colavecchio, autore, compositore e produttore, in questo momento sotto contratto in esclusiva con Eros Ramazzoti. È stato lui che l’ha mandato qui al camp.
“Ho ritrovato autori con cui già scrivo”, asserisce: “Andrea Amati, il maestro Claudio Guidetti, Daniele Coro, Alessandra Flora, e molti altri. I camp sono interessanti proprio perché si combinano delle alchimie pazzesche, inaspettate. Ci si riunisce in gruppi di tre, con autori che non si sa chi possano essere, poi ci si chiude in una stanza, cercando di tirar fuori la propria esperienza, le proprie emozioni, a volta magari scegliendo anche una direzione, un artista preciso al quale destinare la propria canzone. A volte invece nemmeno, semplicemente parte un pezzo e poi solo alla fine si decide a chi proporlo; non ci sono regole, è un’evoluzione strana: non sai con chi scrivi, non sai per chi scrivi, non sai da dove parti né dove arrivi. Ma tutto questo è fantastico, molto adrenalinico.
Devo dire che l’approccio iniziale è necessariamente innaturale, allo stesso tempo, però, credo che sia necessaria una certa predisposizione a mettersi in gioco con persone che magari non conosci e vedi per la prima volta: aprirsi, scrivere un pezzo attraverso il quale esternare le proprie emozioni non è un qualcosa di immediato per tutti, specialmente quando fatto di fronte a sconosciuti.”

Il rischio però è la parte divertente, no?
“Ma infatti per me l’esperienza del camp è fantatica: il fatto in sé di conoscere nuove persone, di scoprirle, fa nascere delle collaborazioni pazzesche; fa tutto parte della costruzione di sé, della propria crescita personale e artistica: qualsiasi tipo di esperienza, questo è un mio personalissimo pensiero, riempie anche solo di un pochettino la valigia delle proprie esperienze, arricchisce, è un do ut des da parte di tutti.
Queste esperienze sono importantissime, e fortunatamente pare che ci sia sempre di più, soprattutto da parte della Saifam, di Roberto Mancinelli e di LePark, ma non solo, la possibilità di replicare occasioni di questo tipo. È una bella cosa, anche perché alla fine escono delle canzoni, e c’è sempre il bisogno di canzoni nuove.”

Qual è la differenza principale tra il lavorare in un camp come questo o lavorare singolarmente, o per un autore in particolare?
“La differenza, credo, è sempre soggettiva. Io sono una persona molto aperta, alla quale piace molto collaborare. Certo, ho il mio studio, e scrivo canzoni anche da solo. Tuttavia, quando lavoro con gli altri, sono più stimolato: ricevo più stimoli, e quindi di conseguenza ne ridò indietro di più. C’è chi, poi, preferisce chiudersi in se stesso, o in una stanza, e scrivere interamente per conto proprio: io penso di riuscire bene in entrambi i casi; però, appunto, preferisco scrivere in gruppo, mi diverte di più. Detto ciò, non esiste una ricetta per scrivere una canzone, è un processo in parte puramente istintivo, per cui ognuno trova la propria dimensione, il metodo che ritiene più adeguato.”

Possiamo chiederti qualche indiscrezione sul lavoro di questi giorni?
“Io sono arrivato ieri, e subito, ancora prima di cominciare a scrivere, io e gli altri autori abbiamo deciso di scrivere un pezzo importante, sanremese. Ieri sera, a fine lavori, abbiamo riascoltato la canzone, e l’impressione è stata quella di essere riusciti nell’intento: una volta usciti dalla sala eravamo tutti davvero felici. Abbiamo ottenuto il risultato che ci eravamo preposti la mattina; siamo stati bravi e fortunati, perché non va sempre così.”

Lo ringraziamo per il suo tempo e -dopo aver salutato Roberto per un’ultima volta- ci avviamo verso l’uscita, sperando di tornare presto al LePark per documentare un’altra esperienza del genere, a suo modo unica nel suo campo.

Antonio Sartori
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