La vera battaglia di Antonin Artaud (1896-1948), drammaturgo, attore, saggista e regista teatrale, è stata, per tutta la sua vita e in tutti i luoghi della sua vita, quella di operare al linguaggio un discorso di decostruzione, sino a portare il principale strumento della socialità, ma anche l’arma codificatrice dell’arte, a quei guasti sintomatici della fallibilità dell’opera artistica e dell’uomo in quanto creatore o emulatore della creazione.
Se questo lavoro sul linguaggio in Antonin Artaud comincia ed è evidente già nei due testi-manifesto della sua idea di teatro, Il teatro e il suo doppio e Il teatro della crudeltà, vi è un vero monumento in tutta la sua produzione che scardina, non solo come detto i principi del linguaggio, ma l’idea stessa di genere letterario: stiamo parlando di Succubi e Supplizi.
Succubi e Supplizi è, a mio avviso, l’opus magnum di Antonin Artaud, un lavoro quasi espulso dal corpo fisiologicamente, una perla di coerente furia psicotica, deragliante, per l’appunto, nel linguaggio, ma anche secernente elementi e immagini e sottotracce di sconvolgente lucidità.
Ricoverato da qualche anno nel manicomio di Rodez e sottoposto a un centinaio di elettroshock, “il suicidato della società” (così scriveva di Van Gogh come guardandosi allo specchio), non può scrivere perché preda degli effetti disumani e disumanizzanti della vecchia psichiatria.
Parkinsonizzato e mutevole dal punto di vista umorale, si servirà della concessione da parte della sua casa editrice di due dattilografe che in qualunque momento di ispirazione batteranno a macchina i suoi pensieri.
Detto questo provo a esprimere qualche riflessione circa la dolorosa e straordinaria testimonianza di Artaud da Rodez.
La prima riguarda la rarità eccezionale per l’epoca della concezione di un testo mediante l’oralità. Succubi e Supplizi ha in sé un’epica, che ha tutta la produzione artaudiana, ma qui ancora più palese, ancora più eccessiva, un’epica immediata e dalla vorticosità immaginifica del chiacchiericcio orale. Una espulsione, come dicevo, fisiologica che batte il tempo mentale senza l’intoppo della scrittura: pensiero-parola. Artaud improvvisa la “parola” svestendo l’impedimento del senso, scavalcandolo, eludendolo, dando forma e corteccia, immagine e status, ad un magmatico podere dell’immaginazione.
Dunque oralità che assume il ruolo di desertificazione del senso; letteratura orale che si fa gioco di percezione nel labirinto inconscio di un “io” impossibile.
Artaud, in Succubi e Supplizi, impicca l’io e l’essere, e celebra il corpo, in quanto unico dato fattivo, unica possibile realtà. E del corpo e col corpo, ne dà una visione tanto lucida quanto angosciosa. Lui dice:
“Non è la frantumazione del linguaggio ma la polverizzazione temeraria del corpo fatta da ignoranti che […] Nessun’altra orgia di spirito spiega la costituzione delle cose, non ci sono cose, non hanno costituzione.
Succubi e Supplizi, pp. 163, 164 – Antonin Artaud
È la scorreggia dei gas erotici dal punto in cui cade morto.
Del corpo attraverso il corpo con il corpo dal corpo e fino al corpo.
La vita, l’anima nascono soltanto dopo. Non nasceranno più. Tra il corpo e il corpo non c’è niente.
Il corpo si fa all’indietro di sé e non in avanti, per tagli di aggiunte -… gusto, molto meno dell’inerte niente, che lo supera di cento treni.”
E il suo urlo, talvolta sommesso, talvolta esasperato, mai tendente al distacco ironico, perché troppo terribile per riderne, sgorga ed esiste in quanto esempio di veridica coerenza.
Tutto di Succubi e Supplizi è necessario. Nulla si castra nel belletto. Forse il più grande intellettuale del ‘900 offre al lettore e prima di lui a se stesso una cosmogonia improvvisata e asistematica – passando dall’aforisma alla riflessione, alla lettera, alla poesia – che ha tutti i topoi del miglior Artaud, ma che è anche dialogo interiore e resa. Qui l’arte non tende al mondo o alle sorti degli uomini, ma è dinamite prima del silenzio finale. Dunque l’apocalisse di Antonin Artaud esplode come un piccolo fiato e non fa rumore.
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