Il 28 Gennaio 1972, all’età di 66 anni, si spegneva Dino Buzzati, grandissimo scrittore italiano del ‘900, famoso soprattutto per i suoi romanzi Barnabò delle Montagne (1933) e Il Deserto dei Tartari (1940).
La sua penna, colma di infinita fantasia e di fine intelletto, ha lasciato una traccia indelebile sia con le sue opere più importanti sia con quelle che possiamo definire di “secondo impatto”: con quest’ultime si intendono ovviamente tutti quei scritti creati dal Buzzati giornalista, lavoro svolto dallo scrittore bellunese sin dalla gioventù.
Occupatosi di corrispondenza di guerra, di sport, di cultura, di cronaca nera e di inchieste, il buon Buzzati ha deciso di brillare anche all’interno della redazione del Corriere della Sera e del Corriere dell’Informazione, diventando così una delle firme più prestigiose della storia del giornalismo italiano.
Gli articoli di Dino Buzzati giornalista si fondavano su un particolare punto di vista: l’elemento fantastico si andava infatti ad intrecciare con la realtà più cruda, una realtà quasi neorealista, piena di dettagli sconvolgenti ma necessari per un’informazione totale. Un chiaro esempio che racchiude tutto questo è L’ultima veglia di Torino ai trentun caduti di Superga, articolo scritto il 6 Maggio 1949, appena due giorni dopo da La grande tragedia sportiva: la scomparsa del Grande Torino.
All’interno dell’articolo Dino Buzzati condensa magistralmente quanti più dettagli possibili, volti a commemorare non solo una “Squadra d’eroi”, ma tutta quanta la città piemontese. La “vecchietta che da qualche mese gioca con accanimento al Totocalcio” che “annaspa col mozzicone di matita copiativa, sulla scheda delle scommesse settimanali” e che “là, in corrispondenza del Torino, incontra un inspiegabile vuoto, come un buco nero e profondo che sconvolge i suoi miti calcoli” è non solo l’incipit dell’articolo, ma anche l’inizio del racconto di una giornata, una giornata vissuta da Buzzati ad esaminare i volti, gli sguardi, le azioni di un’intera popolazione.
In questo articolo la fantasia entra direttamente in contatto con l’onirico, una visione Lynchiana di una giornata piena di dolore per una popolazione che ha sempre visto il Grande Torino, con gli occhi da bambino, la squadra dei miti che, secondo le parole di Buzzati,
“Nella mediocre vita delle grandi città essi portano ogni domenica un soffio di fantasia e di nuova vita; senza sangue né ira ridestano negli uomini stanchi qualcosa di eroico”.
Nonostante possa risultare esagerato bisogna pur sempre storicizzare gli eventi: per un paese come l’Italia, uscita da pochissimi anni dal secondo conflitto mondiale, il Calcio era diventato il grande catalizzatore di emozioni, la via di fuga per la miseria scaturita dalla Guerra. Questo Buzzati lo aveva capito, ed è proprio per questo che la sua attenzione si è rivolta non solo ai singoli ma, come accennato anche prima, all’intera popolazione di Torino.
Tifosi, avversari, i pochi interessati: tutti piangono in religioso silenzio, avvolti in un pudore stoico, “Si guardavano l’un l’altro, muti, immobili, come per un misterioso rito”. Buzzati, vedendo e raccontando questa scena, rimane stupefatto dal surrealismo che circonda la vicenda, poiché, a causa di questa sciagura, ad essere scomparsa non è solo la squadra del Torino, ma tutta quanta la città piemontese. Per alcuni giorni Torino era infatti diventata a tutti gli effetti una città fantasma, e una città, quando diventa tale, cessa di esistere.
Nell’ultima parte dell’articolo Dino Buzzati ha voluto, definitivamente, rifiutare la realtà, affermando che i veri corpi dei giocatori del Grande Torino non si trovano all’interno delle trentuno bare esposte a Palazzo Madama, bensì all’interno del quaderno di figurine del bambino, dove si potranno ritrovare “su quelle innocenti pagine, per sempre intatti e puri”.
A proposito dell’innocenza mi viene da pensare ad un altro articolo di Dino Buzzati, un mini racconto pubblicato nel 10-11 Ottobre 1964 sul Corriere d’Informazione, La bambolina del Vajont. Avendo già seguito la tragedia del Vajont per conto de Il Corriere della Sera, lo scrittore decide di omaggiare ulteriormente una delle pagine più nere della storia italiana contemporanea.
L’articolo in questione è un modo per Buzzati di ricordare l’anniversario del Vajont, tutto attraverso un singolo oggetto, che sembra quasi prendere vita all’interno di questo piccolo racconto: una bambola. La reliquia, che si scoprirà poi essere un oggetto appartenuto ad una bambina vittima del disastro della diga, è stata trafugata da una borghese di Milano, Ester Londomini, definita da Buzzati una delle tante padrone del mondo.
Guardando più e più volte questa bambola, il protagonista (lo stesso Buzzati) ricorda di averla già incontrata all’interno di una cappelletta vicino Cortina, dove riposava proprio la vera proprietaria della bambola. Ed è in questo preciso momento che si viene a conoscenza del misfatto: la donna ha “rapito” la bambola, sostituendola con una bambola nuova di zecca. Con queste poche righe lo scrittore bellunese compie una feroce critica nei confronti della borghesia e della società dei consumi; si trasforma in un corsaro Pasolini, rimanendo tuttavia ben saldo alle proprie caratteristiche narrative.
Nei passi successivi, Dino Buzzati cerca ancora una volta di descrivere il paesaggio del Vajont, ormai pieno di bianche cicatrici, a cono della celebre frana: la personificazione della montagna diviene ancor più presente con la similitudine che lo scrittore fa: È come trovare un uomo svenato ma accanto a lui non la prevedibile pozza di sangue bensì un grande lago sul quale navigano barche e vaporetti.
Ripensando quindi alla distruzione che le persone hanno dovuto sopportare in seguito a questo dramma, Buzzati profetizza a Ester Londomini l’arrivo del fantasma della bambina del Vajont, decisa a riprendersi la sua bambola. La fantasia, il surreale, il paranormale prendono da questo momento le redini della vicenda, che raggiungerà il climax finale con una scena degna del miglior Edgar Allan Poe:
Nello stesso tempo il campanello della porta si mise a suonare impazzito. E si spalancò da sola la porta d’ingresso e, come nei classici racconti dello spavento, una ventata d’aria gelida irruppe nella sala, e tutti avevano delle facce bianche come la morte. Tranne la signora padrona di casa Ester Londomini; la quale reagì risolutamente al panico e corse verso l’anticamera, come per redarguire gli importuni spiriti della notte. «Cosa succede?» chiamava. «Cosa succede? Stiamo diventando tutti matti?» In quel momento mi accorsi che sulla soglia, di traverso allo zerbino, giaceva una grande magnifica bambola vestita di tutto punto, nuova.
La fantasia è compiuta, sembra essere arrivato il momento della risoluzione positiva della vicenda. Ma ecco arrivare la donna, quella donna. Prendendo la bambola da terra si dirige senza paura verso un armadio, apre un cassetto e pone l’oggetto al suo interno. Guardandosi attorno esclama, con nonchalance, Sempre uguali quelli là! Mai contenti, mai contenti! Ogni volta, leggendo questo finale, non si può non affermare, con la stessa nonchalance della donna del racconto, la seguente frase: Viva gli scrittori-giornalisti come Buzzati.
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