29 aprile 1863 – 29 aprile 1933: oggi è l’alfa e l’omega, giorno di nascita e di morte, di Konstantinos Kavafis, il poeta greco più noto e sicuramente uno dei più amati.
Un uomo riservato e decoroso, a tratti schivo, che conduce una vita ordinaria e quasi monotona: il lavoro presso l’ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici d’Egitto, passeggiate – ma prevalentemente casa-ufficio-ufficio-casa –, qualche incontro con gli amici, i primi trentasei anni della sua vita vissuti con la madre e i dieci successivi con i fratelli. Anche i viaggi fuori dall’Egitto, per Kavafis, sono veramente pochi: Londra, Parigi, solo quattro volte in Grecia. In una sua poesia, Monotonia (la traduzione di seguito è di Andrea Di Gregorio), Kavafis scrive:
A un monotono giorno un altro ancora,
Monotonia
implacabile, identico, monotonamente segue.
Capiteranno le stesse cose, poi capiteranno ancora,
sempre gli stessi istanti in successione, senza requie.
Passa un mese e porta un altro mese.
Come sarà? Si fa presto a immaginarlo.
La stessa noia di ieri: niente sorprese.
E il domani che non è più domani: non aspettarlo.
Un ordinario che conduce una vita da borghese, Kavafis, o almeno così sembrerebbe in apparenza. In realtà il lavoro, che pure svolge con meticolosa precisione, non gli piace affatto: è solo un mezzo che gli può garantire di vivere bene, lo odia e lo subisce come un furto al suo tempo, che dedicherebbe più volentieri all’arte. La noia e l’insofferenza che nascono da questa opprimente ripetitività vengono stemperate dal gioco d’azzardo, a cui Kavafis si dedica a livello professionistico facendo lievitare il suo stipendio in maniera notevole.
A conclusione del velocissimo ritratto di quest’uomo dis-ordinario c’è l’omosessualità, che percorre l’intera produzione del poeta nella forma di amore vano, immorale, che non porta a nulla, e per questo meraviglioso, forte, importante.
La società borghese cristiana in cui vive e di cui condivide idee e valori non gli impedisce di vivere la sua omosessualità – scoperta intorno al 1882 – con serenità, “come una cosa naturale, e quindi insormontabile, per la quale non è possibile sentirsi veramente in colpa” (dall’introduzione a Kavafis, Poesie, traduzione di Andrea Di Gregorio, Garzanti 2017, pag. XII). Per questo non si ribella alla sua condizione – come lui stesso la definisce – e sa che i tempi non sono ancora pronti. Arriverà un giorno – si augura in Cose nascoste – una società perfetta:
Da quel che ho fatto e da quel che ho detto
Cose nascoste
non si provi a capire chi sono stato.
Un ostacolo c’era che alterava
le mie azioni e il modo in cui vivevo.
Un ostacolo c’era ad arrestarmi
quando ero sul punto di parlare.
Dai gesti passati inosservati,
dagli scritti più di altri appartati…
solo da lì mi si potrà comprendere.
Ma poi non vale la pena di spendere
tanta cura e impegno per conoscermi.
Un giorno, in una società perfetta,
un altro che sia fatto come me
di certo apparirà e sarà libero.
C’è una parola in questa poesia che è il perno attorno a cui ruota tutto e il passepartout per accedere alla comprensione di alcuni comportamenti di Kavafis. La parola è ostacolo. Un ostacolo che altera, trasforma le sue azioni e il suo stile di vita; un ostacolo che blocca, che non permette di dire ciò che si pensa e si prova. Quest’ostacolo non è certo l’omosessualità, bensì la paura della non comprensione, oppure meglio, la certezza di non essere compreso dalla società in cui vive, che è imperfetta.
Il giorno dell’arrivo della perfetta – ahinoi e ahilui, se vedesse – non è ancora arrivato, altri che sono fatti come lui non possono dire certo di sentirsi veramente liberi però sì, si sono mostrati e sì, a fatica qualcosa sta cambiando. Di certo Kavafis è stato bravo a non esplodere, a ritagliarsi spazi – nascosti – nella società (il titolo tra l’altro richiama l’espressione epicurea lathe biosas, “vivi nascosto”). Scrive Andrea Di Gregorio nell’introduzione alle Poesie (Garzanti, 2017):
È difficile fare come lui, ossia accettare le convenzioni e le convinzioni sociali, ritenere importante mantenere la dignità, il decoro, conservare il posto che ci si è ritagliati nella società e, al tempo stesso, accettare il fatto che non si può andare contro la legge dell’amore, che è anch’essa legge di natura e, quindi, in un certo senso legge divina.
Dall’introduzione a Kavafis, Poesie, traduzione di Andrea Di Gregorio, Garzanti 2017, pag. XIII.
Per Kavafis, per esempio, è impensabile avere una relazione stabile, come scrive in Andai (qui proposta nella meravigliosa traduzione di Filippo Maria Pontani):
Non conobbi legami. Allo sbaraglio, andai.
Andai
A godimenti ora reali e ora
turbinanti nell’anima,
andai, dentro la notte illuminata.
M’abbeverai dei più gagliardi vini,
quali bevono i prodi del piacere.
Il timore di essere considerato diverso e anomalo lo frena dal costruire qualcosa di duraturo ma non gli impedisce di vivere con spensieratezza ciò che dà piacere. E questo – il godimento del piacere – è solo uno dei temi che rendono eterne, atemporali e così attuali le poesie di Kavafis (coetaneo di D’Annunzio, anch’esso nato nel 1863). In Come tutto è iniziato (trad. di Andrea Di Gregorio) Kavafis presenta questo piacere come illecito, ma degno – “domani o domani l’altro, o tra chissà quanti anni”; il motivo dell’impossibilità momentanea torna spesso – di essere fissato su carta, di diventare letteratura:
Il compimento del piacere illecito
Come tutto è iniziato
è avvenuto. Si sono alzati dalla branda,
e si rivestono, in fretta, senza dir parola.
Escono separati, di nascosto, dalla casa, e mentre
camminano per strada, un po’ inquieti, sembra
quasi che sospettino di avere indosso qualche cosa
che tradisca il genere di letto su cui si sono appena sdraiati.
Ma che guadagno per l’artista!
Domani o domani l’altro, o tra chissà quanti anni,
scriverà i versi, forti, che qui hanno avuto origine.
Ecco, quell’aggettivo, illecito, non nasce dal pensiero di Kavafis ma da quello della società dell’epoca. Nel resto del componimento non c’è assolutamente senso di colpa, pentimento o rabbia nei confronti delle convenzioni sociali borghesi. C’è appagamento e soprattutto gioiosa speranza – quasi una sicurezza – che un giorno questo amore verrà da qualcuno cantato.
C’è, ad ogni modo, sempre la paura di essere scoperti e l’idea che il disastro sia dietro l’angolo; ecco perché i due escono separati e di nascosto, con una costante preoccupazione in sottofondo. La sensazione di incertezza e di precarietà è altro tema presentissimo, come leggiamo in Fine (trad. di Filippo Maria Pontani):
Tra paura e sospetti,
Fine
con la mente sconvolta e gli occhi esterrefatti,
ci logoriamo a vagheggiare scampi
al rischio certo
che ci minaccia tanto atrocemente.
Errore! Sulla nostra via non c’è.
Erano menzognere le notizie
(non udite? fraintese?). Altra rovina,
che non s’immaginava,
su noi fulminea scroscia,
e sprovveduti – non c’è più tempo! – ci prostra.
Se la paura frena l’amore, non frena di certo il tempo che, una volta perso, più si recupera. E per Kavafis non c’è nulla di più importante dell’amore, che va quindi vissuto.
Per questo termino il presente articolo-ricordo su Kavafis (immeritatamente breve, incompleto, e nel quale ho provato per quanto possibile a evitare le poesie più note, come l’onnipresente Itaca, Per quanto puoi, Candele, Aspettando i barbari, Il tavolo vicino) con una poesia che va proprio a celebrare l’amore che, in un modo o nell’altro è vincitore: Due giovani, tra i ventitré e i ventiquattro anni (nella trad. di Andrea Di Gregorio, ma consiglio di leggere anche la traduzione di Massimo Scorsone in Che siano tanti i mattini d’estate. Il Canone: poesie 1897-1933, Bur 2013):
Era al caffè più o meno dalle dieci
Due giovani, tra i ventitré e i ventiquattro anni
e aspettava a momenti che arrivasse.
A mezzanotte, ancora lo aspettava.
All’una e mezza ormai si era svuotato
completamente, o quasi, quel caffè,
e lui si era stufato di sfogliare
a caso i giornali. Tre scellini
aveva. Ora gliene restava uno:
gli altri spesi in cognac e in caffè.
fumate tutte, sì, le sigarette.
Era sfinito dall’attesa. E poi,
stando da solo tutte quelle ore,
fastidiosi pensieri, sulla sua
vita deviata, l’avevano assillato.
Ma non appena lo vide, in un momento
stanchezza, noia e pensieri svanirono.
L’amico gli portò un’insperata
nuova: sessanta lire aveva vinto a carte.
I loro volti, belli, la gioventù mirabile,
l’amore sensuale che avevano tra loro,
si rinfrescarono, si ravvivarono, si tonificarono
con quelle sessanta lire vinte a carte.
E pieni di gioia, di forza, di sentimento e bellezza
andarono – non a casa delle loro onorate famiglie
(dove, per altro, non li volevano neanche più),
ma in una a loro conosciuta, e perfetta per la bisogna,
casa di perdizione. Andarono e chiesero
una camera, liquori costosi e bevvero ancora.
E quando i liquori costosi furono finiti,
e ormai erano quasi le quattro,
si diedero all’amore, felici.
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