Quante certezze può dare una poesia? Poche, se ci pensate bene. Sembra lo faccia apposta: così piena di interrogativi, di questioni irrisolte, più che dare risposte, la poesia genera dubbi, pone domande, alimentando un circolo che non conosce mai fine. Non potevano che partire da queste premesse due delle poetesse più rappresentative della scena poetica italiana. Antonella Anedda ed Elisa Biagini, coadiuvate da Riccardo Donati, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Salerno, hanno recentemente pubblicato un libro, edito da Chiarelettere, dal titolo “Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola”.
Un titolo che è già un programma, o, per usare un termine fin troppo caro agli scrittori, un manifesto. Senza ossigeno non si vive, è acclarato. Ma chi andrebbe ad associare alla poesia l’ossigeno, secondo un procedimento metaforico ben noto a chiunque abbia compiuto studi in merito, se non chi ha fatto della poesia la sua principale ragione di esistere? E poi c’è quel sottotitolo, “ecologia della parola”, che istintivamente ci rimanda al lessico ambientale, ma che non si esaurisce con la freschezza di una foglia coperta di rugiada o di una campagna che resiste all’incedere della città.
L’ecologia studia i rapporti tra gli organismi viventi e l’ambiente circostante, ma a questa vocazione speculativa si accompagna un’azione attiva volta a limitare le conseguenze che potrebbero compromettere l’ambiente e tutti gli esseri viventi che da esso dipendono. “Ecologia della parola” indica la stessa cosa: le parole sono organismi viventi, in un certo senso, reagiscono a certi stimoli e innescano determinati impulsi. Di per sé la parola non è buona né cattiva, ma lo diventa nel momento in cui viene caricata di significati che possono cambiare nel tempo. Così, se la parola è un essere vivente, la società, nel suo divenire storico, ne è l’ambiente.
“Poesia come ossigeno” è un libro a tre teste diviso in quattro sezioni. La prima testa, quella di Donati, apre il volume con un’introduzione che offre alcune chiavi di lettura per comprendere al meglio l’impostazione data. Lo ritroveremo, il nostro teorico, nel primo capitolo del libro, in un colloquio con le due poetesse svoltosi a Roma tra il 1 e il 2 giugno 2019. In questa parte, molto interattiva, talvolta caratterizzata da brevi monologhi, talaltra dal ritmo rapido del botta e risposta, si affrontano varie questioni relative alla poesia: il tipo di lingua utilizzata, la sua “non-innocenza”, la sua capacità di plasmare le menti e cambiare, così, il volto della società. Ma anche l’importanza della lettura come finestra sul mondo e sull’animo umano, e la necessità di passare dalle traduzioni, non sempre fedeli, non sempre piacevoli, per esportare certi pensieri al di là del confine.
Il secondo capitolo presenta invece le riflessioni personali delle due poetesse, prima di Antonella Anedda, poi di Elisa Biagini. Emerge una concordanza di idee, arricchita da un proprio vissuto e da un diverso sentire. Torna insistentemente la convinzione che la poesia non salvi la vita, ma aiuti a conservare quell’impareggiabile mezzo espressivo che è la scrittura. La poesia non cura, non guarisce, ma certe scelte che si fanno, seppure a livello linguistico, seppure solo sul piano del contenuto, possono avere un certo impatto, diciamo pure, “politico”.
Nel terzo capitolo, Anedda e Biagini ci mostrano le loro impressioni di lettrici, il che ci dovrebbe aiutare a sentirle meno distanti – sensazione piuttosto frequente quando si ha a che fare con persone che praticano un’arte che possiamo solo apprezzare – e a riconoscere in loro ciò che spesso si agita in noi. In questo capitolo troverete poesie di autori di ogni epoca e ogni angolo del pianeta, dagli antichi, come Alcmane e Ovidio, ai moderni, come Emily Dickinson, Eugenio Montale, Adrienne Rich, Franco Fortini e Andrea Zanzotto. Una piccola antologia molto personale. Più che un commento al testo, le parole che accompagnano i singoli componimenti sono chiose, annotazioni che le due poetesse sentono di dover scrivere non tanto per offrire chiarimenti su ciò che un autore volle dire, ma per esprimere il fruscio interiore che quelle parole smuovono, e la ragione il più delle volte ci sfugge.
Chiude il libro un quarto capitolo, in cui le due poetesse cercano di mostrare al lettore come possa nascere una poesia o, almeno, una loro poesia. Entrambe scelgono luoghi precisi, lontani, dove hanno trascorso un periodo piuttosto limitato della loro vita, ma che rimane impresso, col suo carico di emozioni, nelle parole che hanno trovato forma su carta. Anedda sceglie il Giappone, Biagini l’Argentina. Entrambe frugano tra le cianfrusaglie dello zaino dei ricordi e riportano alla luce avvenimenti che furono rovinosi per un intero popolo: la prima, il disastro della centrale nucleare di Fukushima, la seconda, le persecuzioni e gli omicidi politici della dittatura di Jorge Videla.
C’è un filo sottile che percorre questo libro: il peso della poesia. Non il peso del macigno che ti riduce in poltiglia, ma, a suo modo, un peso ugualmente insostenibile. Provate a dire a qualcuno: “Ah, tu quindi sei un poeta!”. I primi tempi, forse, gli farà piacere, ma a lungo andare, quando con la pratica acquisirà una vera tecnica e l’esercizio continuativo di una forma d’arte tanto celebrata lo porterà ad abbassare il capo in segno di umiltà, vi risponderà: “No, io sono uno che scrive poesie”.
La scrittura, e in generale tutto ciò che sa di doversi esprimere attraverso la parola, ha un potere, la cui forza può essere solo immaginata, non calcolata. Il potere, però, e questo è il cruccio e il vanto degli uomini di Stato, non viene mai solo, ma si porta dietro molteplici responsabilità. Un poeta scrive per bisogno, è vero, un bisogno interiore, non economico, ma nel momento in cui accetta di farsi pubblicare sa che i suoi versi potranno essere di ispirazione per altri, e questa è la parte allettante dell’impresa. Ma che succede quando ciò che ha scritto crea proseliti e a lui si inizia a guardare come ad una guida spirituale? Eccole le responsabilità. Non le hai cercate, eppure ti sono piombate addosso, fra capo e collo.
Antonella Anedda ed Elisa Biagini, e con loro Riccardo Donati (che ne sarebbe di scrittori e poeti senza qualcuno che si interessi a loro e se ne prenda cura, nel bene o nel male?), sanno che la poesia è un’arma a doppio taglio. Devi saperla impugnare, prima di brandirla, altrimenti ti procurerà molte ferite e poche vittorie. Ma alla poesia si torna, come dopo una lunga giornata si rincasa e finalmente ci si toglie le scarpe. Ti fa sentire comodo. In lei si cercano risposte alle nostre domande. Ma quali risposte può dare qualcosa che neppure chi la pratica sa dire che cosa sia? Ecco perché è tanto importante. Perché suscita domande e, si sa, è ciò che sta dopo il punto interrogativo a chiudere un discorso.
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