Diario Minimo, 1961. La penna è quella di Umberto Eco. In tre pagine di articolo l’intellettuale alessandrino traccia gli storici lineamenti di quel fenomeno televisivo che, irrimediabilmente, avrebbe in qualche modo contribuito a costruire la personalità della società odierna, quella dei mezzi di comunicazione di massa.
Con Fenomenologia di Mike Bongiorno, Umberto Eco raccoglie non solo quelle che sono le principali caratteristiche di un singolo personaggio ma, in qualche modo, riesce a riassumere quelli che sono i tratti generali di una società che strada facendo, già dagli anni ’60, inizierà ad abbandonare l’idea della progressione personale, convertendosi sempre di più al confortevole del mediocre. Un mediocre i cui elementi traino, ovviamente, sono quelli che vengono “sponsorizzati” proprio sugli schermi televisivi, in tutte le case degli italiani e, al giorno d’oggi, anche sulle bacheche online dei social media di tutto il mondo.
Il caso più vistoso di riduzione del superman all’every man lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta
Nello sguardo attento di Umberto Eco, Mike Bongiorno è rappresentato come un uomo mediocre, privo di particolari talenti, privo di particolari competenze, bellezze o altro.
Un uomo che, nella sua infinita “medietà”, mette a proprio agio quello che è lo spettatore medio
Mike Bongiorno, con le sue gaffe dovute talvolta ad una visibile ignoranza, con il suo modo di fare schiettamente brusco, il suo modo di etichettare la cultura come “qualcosa di appartenente a chi legge tanti libri”, senza prendere in considerazione la sola presenza ombra di un minimo spirito critico e, soprattutto, senza mai prendere una posizione vera e propria o sollevare una discussione, diventa un personaggio estremamente fruibile anche grazie al “basic italian” con cui si esprime parlando alla gente presente negli studi televisivi e dietro gli schermi.
Non un ideale di superiorità da inseguire, da raggiungere, ma un ideale di medietà che si adegua a quello dello spettatore che, in questo modo, rassicurato dalla sua “non mancanza”, non sente il bisogno di diventare altro, diventare meglio. Si adagia su sé stesso in quanto, se anche il “signore dei quizzoni” poteva tranquillamente risultare vincente nella sua mediocrità, allora, non vi era necessità di un ulteriore sforzo per gli altri.
L’immagine che Umberto Eco (e prima ancora di lui Bianciardi) riserva a Mike Bongiorno appare di una brutalità disarmante, estremamente cinica e schietta
È un immagine in cui, però, non si può non trovare più di un fondo di verità sostando in una sana riflessione. Nel 1961, come tanti altri assieme a lui, Umberto Eco aveva già tentato di denunciare quella che sarebbe stata la grande mediocrità culturale, il grande appiattimento a cui avventi come quello della televisione o del “sessantottinismo” avrebbero destinato la società mondiale.
Impossibile, quindi, non rivedere nei grandi volti della TV di oggi (esclusi i conduttori di programmi con un chiaro scopo culturale) la stessa mediocrità, la stessa accessibilità “mentale” e culturale riscontrabile nel Mike Bongiorno “echiano”. Difficile non rivedere in essi, il volto, le parole, le espressioni e le idee dell’italiano medio.
Quello indicato da Umberto Eco in Fenomenologia di Mike Bongiorno non è solo un fenomeno isolato del suo tempo ma, anzi, la ricetta della contemporaneità
Il riempimento giornaliero della televisione crea vuoto, quel vuoto che nella società massificata dà vita a modi per ammazzare il tempo e non passarlo, riempirlo di contenuti, di elementi in grado di spronarci ad elevarci e osservare la vita oltre il velo.
Perché, quindi, non premere il tasto off del telecomando e, magari, accendere la curiosità? Quella sicuramente non può venire da uno schermo. Non è nella comfort zone dell’immagine accomodante che l’individuo può trovare avanzamento, ma nella scomoda presa di coscienza di una mancanza, una mancanza da riempire e non da cui fuggire.
Insomma, dovremmo essere tutti un poco meno Mike Bongiorno e un poco più Umberto Eco.
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