A Beautiful Place to Drown – Noti ai più della mia generazione dopo essere saliti alla ribalta nei primi anni 2000, il ricordo che probabilmente molti di noi hanno dei Silverstein è quello della tipica band alternative rock dal taglio adolescenziale, fenomeno molto diffuso agli albori del millennio.
Da quei “fasti”, però, sono passati ben vent’anni e, a quanto pare, la band Canadese sembra non aver perso il suo taglio “energico” e gioviale riuscendo, comunque, ad evolversi e tenersi al passo con i tempi. Ne è una chiara testimonianza A Beautiful Place to Drown, nono album in studio rilasciato lo scorso 6 marzo (UNFD Records).
Andare avanti, senza mai dimenticarsi quello che rimane alle spalle
E’ questo il motto che i Silverstein nei loro 20 anni di lunga carriera hanno portato sempre avanti, garantendosi passo passo un’evoluzione fedele con la loro natura ma sensibile a quelle che sono le atmosfere musicali del circondario. E’ perfettamente udibile, infatti, in A Beautiful Place to Drown la dura, durissima (per sonorità) lezione del metal moderno.
Inutile negarlo, onesto ammetterlo. Il djent è il solo genere metal che nell’ultimo trentennio è stato in grado di attaccarsi a mò di (Corona)virus sul dna dei generi circostanti, riscrivendone le regole, le sonorità e i parametri. La pesantezza, la compattezza sonora, il riffing del djent sono, ormai, visibili in molte delle produzioni metal contemporanee (almeno li parliamo di musicisti e non di stantii antiquari). I Silverstein, ovviamente, non ne sono rimasti immuni.
A Beautiful Place to Drown è, di fatto, un lavoro godibile e dal taglio in parte piuttosto contemporaneo
Mentre sono ancora perfettamente udibili (forse anche troppo) le venature simil punk tipiche dell’alternative dei primi 2000 tanto nella voce quanto nell’impostazione strutturale dei pezzi, è impossibile non notare l’innesto verace di “masse critiche” di pura durezza chitarristica, elementi elettronici ad impreziosire qua e la e, talvolta, anche qualche collaborazione spuntata fuori dal mondo del progressive metal che, un pochino, stupisce e fa sorridere (Intervals Ndr.).
Dalla carismatica e catchy Infinite, singolo di lancio e potenziale tormentone, passando per la ben più “grezza” e punkettona Burn It Down o la durissima Madness, i Silverstein con A Beautiful Place to Drown fanno sfoggio di un sound quasi paradossale, in grado di suonare “vintage” e fresco al tempo stesso grazie a pezzi sempre energici, dal minutaggio ridotto ed estremamente godibili.
Impossibile non notare, però, in A Beautiful Place to Drown forse un eccessivo attaccamento al passato
I ragazzotti emo/post-hardcore dei primi 2000 sono ormai cresciuti, con i volti segnati dal tempo, look ben più formali e tenuti (finalmente la bella voce di Shane Told è anche associata ad un taglio di capelli decente) e, forse, intenzioni anche più serie, riscontrabili anche nelle tematiche dei testi che, mantenendo una vena intima, trattano delle difficoltà della società moderna nelle sue mille sfaccettature.
Nonostante ciò, però, il salto completo non sembra essere stato compiuto e, forse, non avverrà mai. Sono un innovatore, lo so. Amo tutto ciò che cambia e, forse, il mio grande difetto è aspettarmi un’evoluzione da tutto e da tutti. Difficile, però, non rimanere con un sapore amaro in bocca rendendosi conto che di 12 canzone almeno 4, probabilmente sono dei filler piuttosto dimenticabili e che le buone “nuove” soluzioni adottate nei pezzi precedentemente elencati non hanno ricevuto il meritato sviluppo, vedendo preferite sempre delle sonorità piuttosto “antiche”.
Che dire, quella dei Silverstein con A Beautiful Place to Drown è un’innovazione a met
Innovazione che risiede nel breve cenno di sassofono della pop/electro All on Me, nella strizzata d’occhio quasi djent del ritornello di Where Are You o nel precedentemente citato intro di Madness. Non basta, però, per completare un lavoro iniziato egregiamente nelle prime canzoni e che poi, proseguendo nella sua riproduzione, va a perdere di sostanza, ricadendo su soluzioni già note ed un pochino stantie.
Fosse stato un Ep di 7 canzoni, A Beautiful Place to Drown sarebbe stato un album perla da cui tutte le band dei primi anni 2000 avrebbero potuto prendere esempio per tentare di scrollarsi la polvere dalle spalle e convergere verso un buon rinnovamento. Invece ci ritroviamo di fronte ad un semplice buon album. Tenta di fare il passo, lo accenna ma non lo completa. Potrebbe però essere una rampa di lancio per il futuro? Speriamo vivamente di si.
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