Aeromantic è il nuovo album del supergruppo The Night Flight Orchestra, nati come costola dei Soilwork col dichiarato intento di riportare in auge le gioie dimenticate degli anni ’80 in questa epoca buia. E’ uscito il 28 febbraio 2020 per Nuclear Blast.
Raramente, negli ultimi anni, mi sono affezionata tanto ad un album come ad Aeromantic dei The Night Flight Orchestra.
Partiamo dall’inizio. Il nome, palesemente un po’ cuccariniano, quegli echi eighties, è effettivamente traducibile come “l’orchestra del volo notturno”. L’idea nacque nel 2007 dalle menti malate di Bjorn Strid , noto come cantante dei Soilwork, e da quella di David Andersson, chitarrista degli stessi Soilwork, durante un tour in Nord America. Lo scopo? Riportare in auge quelle sonorità anni ’80, pantaloni di pelle, suono pieno, melodia trascinante, cori giganteschi e memorabilia.
Ecco che nacquero i The Night Flight Orchestra, con l’aggiunta di – effettivamente – un’intera orchestra. Sharlee D’Angelo al basso, Richard Larsson alle tastiere (elemento perennemente presente ed incredibilmente intrusivo e ben calibrato, in tutta la discografia), Jonas Kallsback alla batteria, Sebastian Forlund alle percussioni aggiuntive ed una pletora di violinisti, componenti aggiuntivi, backing vocals, che cambiano di album in album. In questo caso, l’apporto al violino di Rachel Hall è risultato fondamentale.
Ora. I The Night Flight Orchestra saranno amati disperatamente dai fan dei Ghost, ed ecco, probabilmente, perché io me ne innamorai sin dai tempi del bellissimo Amber Galactic: perché si tratta di quel genere musicale così easy listening che, per essere tale, presuppone un gigantesco bagaglio tecnico ed una grandissima fantasia, per le tematiche sci-fi ed immaginifiche che i The Night Flight Orchestra sottendono.
E Aeromantic – già dal titolo – è da meno. Un viaggio steampunk fra Zeppelin volanti ed elegantissimi, che potrebbe essere – per gli amanti del fumetto – un’ottima colonna sonora per il capolavoro di Alex Alice, Il Castello delle Stelle.
Romantici aereonauti, i The Night Flight Orchestra ci hanno consegnato un album prog rock vecchio stile – melodico, emozionante come solo i Rush seppero fare – che sarà fra i migliori di questo infausto 2020.
C’è spazio per la fantasia in mezzo all’isteria per il coronavirus? Pare di sì, già dall’intro Servants of the Air, sei minuti di cori, accelerazioni e melodia, che ci introducono al viaggio astrale nello strano veicolo – placcato d’oro e blu, elegantissime hostess ad offrire spumante, voce suadente dagli altoparlanti – disegnato dai NFO. Senza soluzione di continuità, ma in un’unica sorprendente soluzione, le tracce non sono staccate fra di loro, ma inserti operistici nel finale dell’una guida subito all’altra: ecco che inizia il primo singolo, Divynils. Che è sostanzialmente un brano degli ABBA in chiave hard rock: catchy, un vero e proprio divertissment per dei metallari convinti come sono i componenti della band, emozionante nella sua semplicità. Eleganti e sinuosi aerei, simili a cigni, si librano in cielo dalle montagne della Svizzera: ecco, quello che la voce di Strid, talvolta aggressiva, talvolta carezzevole, evoca. Il sentore di decadentismo di una belle epoque che è stata ammazzata brutalmente assieme all’arciduca Francesco Ferdinando: ecco che i NFO immaginano che lassù, a diecimila piedi, essa non sia mai terminata.
L’incredibile triade iniziale si interrompe con la ballad If Tonight is The Only Chance, romanticissima ma non superficiale, con la sua gestione di accordi maggiori ariosi e synth leggerissimi che raccolgono, come fosse un altro strumento, la voce di Strid. A pieno titolo fra i brani migliori di Aeromantic vanno anche la successiva This Boy’s Last Summer, brano in stile eighties rubato alla discografia di Belinda Carlisle, e l’interessantissima Taurus. Eppure, l’intero album – cinquantacinque minuti ininterrotti, la cui scelta nella scaletta è impeccabile – risulta di una semplicità e di un’eleganza disarmanti: l’altro singolo, Transmission, ci ricorda epoche kraftwerkiane e da Pet Shop Boys, e non è altro che la descrizione di una chiamata radiofonica fra distanti aereonavi; la voce, particolarmente pulita e definita – quasi irreale, sebbene siamo ben consci che si tratti semplicemente di talento e poca rifinitura di post produzione – di Strid riporta scenari sci-fi, anzi, steampunk – e guardatevi pure Steamboy di Otomo, autore di Akira.
Ma è con la title track – Aeromantic – che si raggiunge forse l’apice dell’album: un tuffo nel passato, ma pregno delle invenzioni moderne del prog rock che dobbiamo a gente come i Dream Theater, gli Haken, i Leprous.
There is nothing like aeromantics
Aerial rendezvous
Nothing like aeromantics
Say that you feel it
Say that you feel it, too
Un brano complesso, che alterna contrappunti e un tappeto sonoro impeccabile che evolve in un chorus che si pianta in testa come il desiderio di un viaggio intergalattico. Stesso dicasi per la divertentissima Carmencita Seven (forse il nome di un’astronave, vai a capire), energica e nostalgica nel suo stirato chorus quasi malinconico; più AOR risulta, invece, la penultima traccia, Sister Mercurial, che ci riporta alla mente eventi felicissimi degli Asia, in album memorabili come Aqua. Mi scatterebbe un cuoricino, se non stessi scrivendo una recensione seria, poi, con l’ending Dead of Winter, malinconica hit da stadio da accendino acceso, che parte con un synth che credevamo di aver dimenticato nelle cassette buttate in garage dei nostri genitori. Elevatissima qualità per un chorus trascinante che non sentivamo dai tempi di Tom Sawyer dei Rush.
Ora. Dopo cotante lodi, cosa consigliare ad un ascoltatore appassionato, forse anche un po’ troppo pretenzioso? Semplicemente di approcciare ad Aeromantic senza lasciarsi influenzare. Senza cercare di trovare il tempo dispari nascosto sotto gli strati di 4/4, e di godere dell’eccellente produzione di Thomas Johansson: perché, a quanto pare, in Svezia, soprattutto dopo la Forge-revolution, è impossibile fare cattiva musica.
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