F & M è un album ripetitivo, scopiazzato qua e là e privo di una reale verve artistica o poetica.
Discotecaro e metallaro insieme, F & M mette in scena una formula già fin troppo collaudata nei Rammstein, band del frontman Till Lindemann. L’insistenza con cui il meccanismo compositivo viene proposto sembra però denotare un’ossessività ottusa e maniacale. Come se sommando sempre gli stessi addendi la somma cambiasse. Il discorso è facile a dirsi: su un ritmo costituito da costanti tunz tunz Lindemann sfrutta le sue abilità canore e interpretative (encomiabili, gli va riconosciuto), giocando con stucchevoli synth e monotoni filtri vocali.
Quando si esce da questa formula, Lindemann e il suo fidato compagno d’avventure in questo progetto, Peter Tägtgren, saltano di palo in frasca in maniera quasi non sense.
Si sfocia quindi nel tango, nel folk celtico tradizionale o in quello più contemporaneo, senza un vero motivo. Sembra più una sorta di zapping sulla televisione o di cambio di frequenza alla radio. Rapido, repentino e totalmente disconnesso.
Il bizzarro esperimento, nonostante un discreto effetto sorpresa, rischia poi di cadere in un citazionismo molto vicino alla copiatura. In particolare, il brano Ach So Gern gioca con alcune atmosfere folkloristiche che sembrano già sentite. Dove? Nella sigla della prima stagione di True Detective, la cui colonna sonora era affidata a Far from any Road dei The Handsome Family.
Non mancano anche brani molto piacevoli da ascoltare e con una certa significatività. Blut, Gummi e Platz Eins sono i risultati positivi della formula Lindemann/Tägtgren.
Ma anche quando funziona, questo disco sembra più un trattato sulle potenzialità dei sintetizzatori che un album. Sembra quasi voler dire: sentite cosa si può fare nella musica con quello che la tecnologia offre. D’accordo, discorso affascinante. Ma poi cosa resta del messaggio artistico?
Non si nega la bellezza dei brani citati, o anche la curiosità che gli altri possono suscitare. Ma disturba la ripetitività del prodotto, la sua incoerenza durante l’ascolto, un’imperdonabile svogliatezza. Sembra fatto tanto per fare, ma non sembra voglia dire veramente qualcosa all’ascoltatore. Il suo ascolto è un’esperienza che lascia un segno piuttosto breve, per essere fruito, assimilato e rigettato fin troppo rapidamente.
Affidato a una band differente, avremmo potuto assistere a un prodotto di un certo rilievo.
Si ascolti quello che vent’anni fa (20 anni fa, sottolineo) facevano i Paradise Lost con Host. Una band che si era sempre mossa nel Doom e nel Gothic decide di punto in bianco di cimentarsi nel Rock elettronico. E lo fa con coraggio e con coscienza. Mettendo a confronto quel disco con F & M di Lindemann e Tägtgren si percepisce la differenza tra la bellezza della poesia e la logica del concetto. I Paradise Lost in quell’occasione avevano espresso un loro messaggio, sfruttando abilmente un linguaggio che non era il loro. Lindemann e Tägtgren sono impegnati invece solo a ostentare tecnica di produzione. Si tratta di tecnologia, ma non c’è poesia e c’è poca arte.
Si tratta della stessa differenza che ha dato all’Inghilterra Coleridge e alla Germania gli Schlegel, Constable e Turner alla prima e gli espressionisti alla seconda. E’ il confronto tra chi è dotato di un’anima poetica e chi ne è privo e cerca di ovviare a questa lacuna con la tecnica o la logica.
Perché a F & M manca essenzialmente e dannatamente una cosa: un’anima. Senza questa, qualunque musica fallirà nel tentativo di raggiungere la nostra interiorità. Non è un disco insufficiente, assolutamente. Ma si è ascoltata roba molto migliore, sia nella Disco sia nel Metal sia nei loro sfaccettati ibridi.
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