Il 12 novembre Gianna Nannini ha presentato a Milano, in anteprima nazionale La Differenza. E Shockwave Magazine era presente alla conferenza stampa e al primo ascolto dell’album
È un piovosissimo Martedì di Novembre, il 12 per la precisione, quando raggiungo il 60 di via Procaccini e mi inabisso, seguendo il corrimano di una scala in acciaio, nella sala dove a breve avrei ascoltato La Differenza, l’ultima fatica discografica di Gianna Nannni.
Tutto ciò che appare, appare in virtù di un orizzonte del vecchio -pardon, vintage: poiché si è vecchi, sì, ma con un certo glamour, d’altronde il potere sta nell’appropriazione, nel com-prendere ciò che (ormai?) è altro da sé, in questo caso appunto la gioventù.
E quindi non si è vecchi ma vintage, non si è anziani ma giovani di altri tempi: ed ecco comparire il vinile e gli amplificatori, moltissimi; manifesto di onanismo estetico radicato nella laus temporis acti, opulenza e sovrabbondanza di ciò che è accessorio, lusso per pochi, e certamente non per giovani.
Non stupisce dunque che la musica rispecchi in fondo la cifra metafisica e comunicativa costruitasi attorno; o, più maliziosamente, da cui la stessa musica dell’album è stata costruita.
Rimangono malizie, si intenda, dal momento che il messaggio centrale rispetto al processo creativo pare essere di segno opposto: l’album non è stato creato, non è stato posto né pensato, ma si è espresso, seguendo il flusso del blues e delle registrazioni one take, lasciandosi trasportare, persino sobbalzando, dalla corrente delle note, degli straordinari musicisti, dell’energia, delle parole scritte di getto.
Questo è quel che è detto, e in parte è quel che è ascoltato. Tuttavia è lo storytelling a farla da padrone.
La definizione de “La differenza” potrebbe essere sintetizzata nella domanda -posta in conferenza stampa- intenzionalmente adulatoria di un qualche giornalista forse effettivamente ingenuo, per il quale in questo disco siano presenti almeno cinque o sei brani in grado di entrare pressoché automaticamente di diritto nei grandi classici del repertorio nanniniano.
Il ché fa riflettere. Innanzitutto sulla puntualità dell’album, e sulla grande esperienza dell’artista che evidentemente è a conoscenza delle aspettative ed è in possesso delle qualità per soddisfarle. In secondo luogo sulla stanzialità repertoriale, tanto combattuta sotto l’insegna di una sempre di moda innovazione, e che però sotto sotto rimane base solida, e forse unica, per il radicamento reale di un artista.
In sintesi, è un disco che nel modo più assoluto non delude le aspettative, ma forse bisognerebbe rivedere le aspettative, quantomeno per una questione di rispetto e considerazione nei confronti della Nannini.
La frattura definitissima tra la mis-percezione gerontocratica del mercato musicale italiana e quella (anche se di poco) più ampia delle nuove generazioni, diviene poi definitiva quando -sempre in conferenza stampa- si annoverano come artisti emergenti Coez e Salmo (il sardo è uno che nel 2020 riempie San Siro, come un Jovanotti qualunque).
Insomma, ascolto tutto sommato piacevole, ma non moltissimo più di una versione più musicalmente ricca del paradigma sanremese; chiacchierata con la Nannini divertente, al netto di siparietti rasentanti la costruzione di veri e propri dialoghi teatrali, con tanto di copione e battute a memoria. Infine, il vintage non passa mai di moda, ma il vintage ha bisogno di un nuovo al quale contrapporsi, altrimenti rischia di rimanere fotografia d’un passato sempre più sbiadito, ritoccata solamente da tentativi di colorazione posticcia e lacrime di ipocrita nostalgia.
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