A due mesi dall’uscita di Rise Radiant, nuova produzione dei Caligula’s Horse che sicuramente comparirà tra gli album progressive metal più interessanti dell’anno, gli Haken tornano sulle scene con Virus (Inside Out Music), secondo capitolo di un doppio concept album che, con il precedente Vector, narra le vicende del “Cockroach King”, personaggio fittizio comparso nella discografia della band progressive metal per la prima volta in The Mountain.
Un secondo episodio che prosegue sulla medesima via tracciata dal suo predecessore anche sul piano prettamente musicale, con il ritorno del sestetto inglese impegnato ancora una volta con sonorità dal taglio più “diretto” e aggressivo
Mentre può far sorridere la stana coincidenza che ha portato alla scelta di un nome per questa nuova uscita ad essere tremendamente “reletable” in tempi di pandemia globale, sicuramente risulta meno “gioiosa” la scelta musicale. Se già con Vector, album nonostante tutto nel complesso di buona fattura, si erano notati alcuni scricchiolii nella produzione artistica degli Haken, con Virus ci ritroviamo di fronte ad un album che ha “il merito” di andare dritto per la sua strada, portando con sé anche tutti i difetti del caso.
Sette canzoni (undici, se consideriamo i differenti episodi della suite Messiah Complex) che, nonostante idee interessanti sparse a sprazzi qua là durante la riproduzione, risultano di poco al di sopra del soddisfacente, dandoci la sensazione di un lavoro carente in quanto a personalità, freschezza e originalità.
Prosthetic, opener dell’album e singolo di lancio, si attesta come uno dei pezzi più duri dell’intera discografia degli Haken e, fuor di dubbio, come uno dei peggiori. Pezzo dalla natura prettamente riff-based, nei suoi sei minuti di riproduzione mette subito in mostra tutti i difetti che incontreremo durante l’ascolto di Virus: riff poco ispirati e stilisticamente anacronistici, impostati su un ritorno alle sonorità del progmetal più classico (Dream Theater), un ritornello complessivamente debole e la mancanza di quel carisma che, per anni, ha contraddistinto la band anglosassone tanto nelle scelte musicali quanto nell’interpretazione.
Una presentazione non esattamente impeccabile per un album che, nel complesso, emergerà con a suo carico molte più ombre che luci
Se la groovy e gloomy Invasion, pezzo che strizza non poco l’occhio al sound dei Leprous con il suo sound cupo e drammatico, è in grado di risollevare le sorti (e gli animi) riuscendo a portare freschezza e soprattutto piglio assieme alla dolce ma esplosiva Canary Yellow, il resto è pressocché non da dimenticare ma, senza ombra di dubbio, dimenticabile.
I cinque e passa minuti di The Strain sono forse tra i più anonimi dell’intera discografia degli Haken, forte di una strofa dalle armonie a dir poco scontate, di un sound secco e di un ritornello che, nonostante la natura slanciata e aperta, non riesce a colpire nel segno, risultando quasi accademico e poco elaborato tanto negli arrangiamenti quanto nelle linee vocali nonostante qualche interessante trovata per quanto riguarda il riffing.
Carousel tenta di mettere della qualità sul piatto, riuscendoci in parte, ma senza però prendere il volo. Ben lontana dalle produzioni più epiche ed accattivanti della band, culmina comunque in uno spaccato di qualità e dotato di una sua personalità divisa tra sezioni estremamente heavy e parti più “clean” dal sound tormentato e opprimente. L’arrangiamento, però, risente di quella scarsa profondità che da Vector sembra affliggere la band che, assieme alla mancanza di idee realmente interessanti, dà vita ad un pezzo che si lascia ascoltare senza riuscire a travolgere o immergere realmente l’ascoltatore.
Poco da dire, purtroppo, per la lunga Messiah Complex, suite divisa in cinque piccoli episodi
Sarebbe forse dovuto essere il fiore all’occhiello dell’album, risulta invece in un affastellamento totalmente privo di coesione di rimandi al passato discografico della band, eseguito in modo disunito e fumoso. Ivory Tower è forse una delle sezioni più carismatiche dell’album, dotata di un ritornello toccante e slanciato che, purtroppo, verrà più avanti ripreso solo in modo estremamente timido. A seguire, un tetris di riff, strumentali o supportati da soluzioni vocali, che, anche se talvolta interessanti, sembrano costituire un seguito necessario e forzato alla composizione. Raramente stupefacente, Messiah Complex trova con The Sect uno dei suoi punti di maggiore interesse, riprendendo in modo brutale le soluzioni di Cockroach King, qui trasposte sotto una nuova accattivante veste.
Il resto appare però forzato, privo di ispirazione. Se il virtuosismo musicale è senza ombra di dubbio presente in soluzioni musicali complesse e ricercate, quello stesso virtuosismo rimane fine a sé stesso risultando in un pezzo che più che una suite appare come un goffo bricolage di idee accostate l’una vicino all’altra alla meno peggio.
Concluso dalla pacata e sciapa Only Stars, Virus è senza ombra di dubbio l’album peggiore della discografia degli Haken, band che nella sua ormai decennale carriera è stata sempre in grado di presentare lavori rivoluzionari, originali e capaci di dirigere il sound della scena progressive contemporanea
Già debole nelle idee, in alcuni casi persino l’esecuzione è ben lontana dall’ottimale. Le tastiere di Tejeida sono spente, poste in sordina a fungere da layeraggio brutale nel grosso dei casi, raramente emergono per offrire idee interessanti dando vita, in conclusione, ad un album dal sound prettamente chitarristico e manchevole di quella profondità sonora che, da dopo Affinity, sembra ormai essere fuggitiva. Ancor peggio le scelte vocali di Ross Jennings. Ormai ben lontano dai fasti di The Mountain e Visions, il frontman si esibisce con linee vocali pigre, appoggiate, spesso prive del carisma necessario a valorizzare la canzone e dal mood fastidiosamente “lamentoso”.
La produzione, ancora una volta affidata ad Adam Getogood, più che in Vector ha totalmente mancato il tiro, dando vita ad un risultato finale piatto, dove i cambi dinamici sono quasi impercettibili e la profondità degli arrangiamenti, già non ottimale nelle idee a monte, viene quasi totalmente abbattuta, favorendo la compattezza che tanto valorizza ambiti notevolmente più spinti come il djent o il metalcore ma che poco ha a che vedere con il progressive “più classico”.
Con Virus gli Haken si mostrano come una band fragile, in debito d’ossigeno, dove lo stesso equilibrio di presenza tra i singoli membri sembra essersi incrinato
Un album squilibrato, che sembra risentire di quell’arsura creativa che non può non affliggere una band costretta, per motivi di mercato, a pubblicare materiale ogni due anni, specie trattandosi di un genere estremamente complesso.
La speranza è che chi di competenza capisca che è il caso di tirare fortemente sul freno e, magari, prendersi una lunga pausa da cui, senza ombra di dubbio, beneficeranno le idee, la tonicità e le creazioni.
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