Human Nature, Nightwish: recensione

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Human Nature (anzi, Human. || Nature.) è il nuovo album dei Nightwish, uscito il 10 aprile 2020 per Nuclear Blast, il secondo con la cantante Floor Jansen ed anticipato dai singoli Noise e Harvest.

“There is pleasure in the pathless woods, there is rapture in the lonely shore, there is society where none intrudes, by the deep sea, and music in its roar; I love not Man the less, but Nature more.”

Chissà com’era silenziosa la pianura, interrotta soltanto da sette colli, su cui ora sorge la più grande metropoli d’Italia, Roma. Qualche boschetto di conifere, un fiume placido che si snodava fra le colline. Il canto degli uccelli acquatici durante la breve estate, gli infiniti inverni dell’era glaciale. Nel vento che soffiava fra gli alberi, negli ululati dei lupi, però, c’era già musica.

E poi venne l’uomo ad occupare quei prati, ed il vociare confuso dei primitivi pastori frantumò il silenzio.

Siamo rumorosi: siamo caos, siamo lacrime, siamo sangue, siamo petrolio e distruzione, ma siamo anche bellezza. Nel nostro codice genetico ci sono migliaia di anni di evoluzione, di peregrinaggio su terre ancora vergini, mutazioni indotte da virus e da esplosioni nucleari: nonostante le estinzioni di massa, nonostante le malattie che ci flagellano da sempre – lebbra, vaiolo, peste, covid19 – siamo ancora qui. Costretti su questo pianeta sempre più piccolo, ma ancora vitali, ancora incapaci di sfuggire alla morte.

La bellezza e l’orrore della nostra epoca, l’antropocene, sono al centro dell’ultimo album dei Nightwish, band finlandese che non ha bisogno di presentazione, Human || Nature. Un album uscito senza presentazioni, senza trailer, lasciando parlare semplicemente la musica e la potenza espressiva del video del primo singolo, Noise.

Human Nature è, innanzitutto, un lavoro estremamente ambizioso. Il rischio che una materia così complessa – semplicemente, l’umanità tutta – fosse difficile da gestire, se non impossibile, era più che concreto: arduo, infatti, dev’esser stato corredare le argute liriche di Human Nature con il sound, differenziato e vario, che caratterizza ciascun brano. Giocare, più che sull’ossimoro, sull’assonanza stilistica: una pratica utilizzata nell’arte da sempre, ultimamente, anti-accademicamente, abbandonata. Human Nature è peraltro un doppio album, la prima metà composta da brani singoli, tutti dal titolo piuttosto sintetico, mentre la seconda metà si configura come una lunghissima suite. Durata complessiva: un’ora e mezza. Un’infinità, data la durata ristretta a cui il metal moderno ci ha abituato.

Human Nature, Nightwish: recensione 1

Un’infinità complessità è ciò che, dunque, caratterizza Human Nature, sia dalle sue battute iniziali, scandite da Music: un ruggito di Marco Hietala, su un complesso soundscape elettronico e metallico; la lunghissima intro operistica, di cori celestiali e chitarra di Emppu apre le danze al cantato di Floor. Che è finalmente dinamico, teatrale, narrativo, espressivo: qualcosa che in Endless forms most beautiful mancava, forse per tracotanza compositiva di Tuomas Holopainen. Già da subito, si nota, nascosta sotto l’opulenza orchestrale che è marchio di fabbrica dei Nightwish, una profonda lacerazione che diversifica la musica proposta fino a Endless Forms Most Beautiful a quella proposta in Human Nature: Music rifugge, già, la struttura a canzone-cavalcata tipica dei Nightwish e del metal sinfonico tutto, toccando le atonalità proposte dalla musica colta di inizio ‘900 nell’intro e, soprattutto, la costruzione climatica del pattern musicale, optando per un più originale anticlimax, distruttivo e a sottrazione, che guida infine a Noise. Il brano, forse, più deludente di Human Nature: permettetemi di guidarvi nella scontatezza, di fronte a quanto espresso da Music, di un tipico brano fatto di accordi maggiori e grandi cori dal sentore cinematografico – che, però, sicuramente, guadagna, e anche molto, se gustato assieme al videoclip.

For eternal earthrise and wonder
A sailor through aeons
Story now heard
Howling at the earth

La svolta sorprendente, però, di Human Nature, si ha con Shoemaker. Tuomas, compositivamente, sempre aver trovato – con tale brano e con Pan, che analizzeremo successivamente – la sua finale realizzazione come musicista: unendo la sua anima classicista con quella, più sperimentale, dei suoi lavori solisti, con, infine, il poi tanto rinnegato spirito romantico che aleggiava in Century Child. Se Shoemaker è un brano neppure lontanamente orecchiabile, guadagna in eleganza ciò che perde in memorabilia per i fan meno musicalmente còlti: in una frase, i Nightwish hanno abbracciato il prog. Scale ardite, intermezzi space rock, una complessa gestione delle orchestrazioni sulla base del tempo scandito da Kai Hahto, più spaziale e geometrico che grandioso ed epico; l’epòs, infatti, è lasciato ai vocalizzi congiunti di Floor e Marco. La voce della straordinaria cantante, qui, finalmente, è lasciata libera di fluire in sintonia col soundscape, curatissimo e modernissimo, di archi wagneriani e cori virili – non retrò e fuori dal tempo e dall’innovazione ascoltato e non apprezzato in EFMB.

nightwish human nature recensione

Da contraltare a tanta difficoltà e scarsa fruibilità ad orecchie poco allenate è poi Harvest, brano di semplice ed efficace struttura, drum and piano based, con l’intrusione folkeggiante di una cornamusa, che introduce il tema della morte, mai ancora toccato in Human Nature. Un campo infinito di spighe di grano indorate dal sole, e lo scintillio della falce. Le profonde implicazioni filosofiche di aver rilasciato un singolo come Harvest in questo periodo storico le abbiamo già esaminate: è stato un atto di coraggio – ricordare all’ascoltatore che la fine della vita è scritta nel nostro genoma.

Join the harvest of hundred fields
Hearty and tame
All going back to one single grain
Offer light to the coming day
Inspire a child
Water the field, surrender to the earth

Vi ho preannunciato, poco fa, che il sound di Human Nature è, in qualche modo, un aggiornamento di Century Child, l’indimenticato classico del 2004.

Pan, condividendo la struttura sognante, fiabesca, major based e l’arpeggio di piano insistente e dolcissimo di brani quali Beauty of the Beast, ne comprime l’essenza, in una vera e propria orgia sonora fatta di doppia cassa, violini impazziti, ed una parte corale in cui, chiaramente, Floor fa la parte del leone – esattamente come fu Tarja. Un’orgia, pagana e primitiva, per l’appunto, di baccanti, di sacerdotesse celtiche: Pan introduce il tema del misticismo dell’uomo naturale pre-Cristiano; quest’ultimo, campo semantico dal quale Tuomas si è sempre e solo limitato a prendere in prestito concetti poi piegati alla sua personale filosofia e, qui, in Human Nature, forte dell’età che avanza e di una, a quanto pare, maggiore conoscenza di se stesso, finalmente rinnegato in pieno. Si prosegue, antropocentricamente, con How’s the Heart che, mi duole dirlo, ha l’aspetto di un riempitivo, come Noise; ma frammista ad una demo di The Islander.

Human Nature torna su altissimi livelli grazie a Procession, che è, finalmente, in grado di unire la fruibilità cui i Nightwish ci hanno abituato con la raffinatezza compositiva di Music, Pan, e Shoemaker: di nuovo, la costruzione di un attento soundscape elettronico, pianistico, ad arricchire e impreziosire il delicatissimo cantato di Floor, che accarezza, per la prima volta nell’album, l’ascoltatore, più che aggredirlo come in precedenza. Ed è la voce primeva della vita antica, ossia dei primi esseri viventi da cui tutti discendiamo (“all going back to one single grain”, diceva Marco in Harvest): cianobatteri fotosintetici in una terra ribollente, un nido ancora vuoto – abitato, poi, da una processione di strane creature divise fra terra e mare: Dickinsonia, Hallucigenia, e, per ultima prima di noi, Pikaia – poi occupato, infine, per la stragrande maggioranza della materia organica, da Homo sapiens. Un’infinita perdita di biodiversità, o un grande guadagno?

Uno zoo vuoto, il cianobatterio ricorda: venne poi il caos dell’umanità, il suo confuso rumore. Tribal, che, a livello di suono, deve molto ai recenti lavori di Myrath e Orphaned Land e fin troppo, compositivamente, ad Arjen Lucassen dei tempi di The Human Equation, narra, come un museo antropologico, lo straniamento,  l’inconciliabile dismorfismo, fra la natura umana più onesta e le religioni abramitiche. Aggressiva, una cavalcata di world music nelle percussioni di Hahto, Tribal si chiude all’improvviso.

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La prima parte di Human Nature termina, infine, con Endlessness. Il nichilismo assoluto, che ha come unica soluzione di continuità l’accettazione, quasi mistica, dell’ineluttabilità della morte come già prevista nei nostri geni, ha come ironico culmine ciò che, semplicemente, per definizione, una fine non ha: la fine stessa, l’eterna mietitrice, il luccichio della falce ben affilata. Impersonata da Marco, nel brano forse più teatrale e più “DarkPassionPlay” dell’intero album. La durezza e crudeltà delle percussioni contrapposte agli archi struggenti crea un collegamento con Tribal, e con la ben più antica Rest Calm, ed è distante eoni dalla dolcezza di Harvest. C’è, ottimismo, però, nel finale della prima parte di Human Nature: la fine è solo l’inizio. Un viaggio verso stelle, verso lidi sconosciuti. Montagne altissime, buio vellutato: l’uomo correrà sempre verso l’incognito, accolto dalla Duat.

The blade is sharp
As soon we’ll go
Follow me into the dark
To the birth of everything

Ora, con la pandemia covid19 in corso, l’umanità sembra essere stata rimossa dalla Terra. Artificialmente: in modo ben più naturale, gli animali – i cigni, i cervi, i lupi – hanno ripreso possesso dei parchi, delle strade, delle spiagge. Dopo cinquanta minuti e dopo aver tanto narrato dell’umanità, ecco che la natura diviene protagonista. La lunghissima suite All the Works of Nature Which Adorn the World si articola in otto movimenti, ciascuno descrivente una precisa opera d’arte della natura, della chimica, della fisica. Partendo da Vista, un’ottima soundtrack per un documentario National Geographic sull’infinità degli spazi aperti dell’Antartide, si passa per la ben più evocativa The Blue – che cita, peraltro, il tema iniziale di Music – che ondeggia quieta e maestosa come l’oceano. Il rigoglio di vita delle foreste e la potenza della fotosintesi sono magistralmente descritte in The Green, ben superiore alle precedenti due tracce; memorabile è, poi, forse per indole naturale nordica, Moor (brughiera), descritta da una malinconica cornamusa che narra gesta di re dimenticati e di natura selvaggia. La del tutto trascurabile Aurorae lascia, poi, il passo a Quiet as the Snow, sperimentale, quasi Philip Glass, nei suoi accordi di piano minimali e nella voce di Floor che sussurra, dolcemente, in varie lingue, “silenzioso come la neve”.

La chiusura di Human Nature è affidata, inanzitutto, breve come il nostro contributo alle ere geologiche della terra, ad Anthropocene. Violini sincopati, una complessa linea melodica espressa da fiati e violoncelli – il nostro caos, il rumore che abbiamo portato sulla Terra, l’interruzione della sua sacra musica, in una sonorità debitrice di compositori come Edvard Grieg e Sibelius. Il gran finale è, però, di Ad Astra.

La Terra, vista dagli anelli di Saturno, dalla sonda Cassini, è un minuscolo punto blu. Tanto appare, a miliardi di chilometri di distanza. Tutto ciò che amiamo è lì. Tutto ciò che abbiamo mai conosciuto. L’unico luogo che Homo sapiens possa chiamare casa. Geraldine James recita Carl Sagan in un ritmato ed esplosivo finale: ora, finalmente, possiamo puntare alle stelle, consci della nostra finitezza, e soprattutto, del pregio del luogo da dove proveniamo, dei suoi splendori, di ciò che di strabiliante e magnifico la natura ha saputo scolpire negli eoni che hanno preceduto il nostro, infinitesimale momento.

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Human Nature è un album complesso, non esente da errori. Si ha spesso la sensazione di trovarsi di fronte ad un lavoro sì ambizioso, ma non fino in fondo.

Che cerca di conciliare due nature troppo differenti: quella della band di successo, e quella dei musicisti che mirano a lasciare un’impronta indelebile nella storia della musica. Come l’umanità ha fatto, nella sua breve permanenza sulla Terra.

Siamo certi solo di una cosa (oltre alla nostra morte): di Human Nature si parlerà molto, molto a lungo.

Giulia Della Pelle
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15 commenti su “Human Nature, Nightwish: recensione”

  1. Complimenti per l’articolo Giulia, davvero un piacere leggerlo fino alla fine. Scritto con una passione e un enfasi superlativa! Ho ascoltato il nuovo album oggi per la prima volta e da fan dei Nightwish, devi dire che è un album davvero fantastico, diversi dagli altri. L’atmosfera in cui si viene catapultati ascoltandolo è completamente trasposta nel tuo articolo. Per quanto mi riguarda è stato un colpo di fulmine “How’s The Heart?”.

  2. Complimenti per l’articolo Giulia, davvero un piacere leggerlo fino alla fine. Scritto con una passione e un’enfasi superlativa! Ho ascoltato il nuovo album oggi per la prima volta e da fan dei Nightwish, devi dire che è un album davvero fantastico, diversi dagli altri. L’atmosfera in cui si viene catapultati ascoltandolo è completamente trasposta nel tuo articolo. Per quanto mi riguarda è stato un colpo di fulmine “How’s The Heart?”.

  3. Articolo che meglio non poteva descrivere quest’ultimo album dei Nightwish… complimenti a Giulia.Ci vorrà del tempo..bisogna risentire l’ album più di una volta per calarsi in questa sonorità più intimista, l’aggressività strumentale del gruppo si è persa in un certo languore soft….forse è il momento giusto per fare uscire questo disco…mi auguro solo si ritorni ad ascoltare un sound più aggressivo..

  4. Lo devo riascoltare… a mio parere buon album ma mi lascia un po’ un amaro in bocca… a mio parere è meno Nigthwish e meno metal. Mi piace ma non è quello che mi aspettavo.
    Per dire, Noise e’ una di quelle che preferisco per la potenza che esprime. Speravo anche in questo album di trovare un crescere di energia invece c’è molto più ragionamento, più studio e ricerca di nuove sonorità (ricerca che trovai anche in Imaginaerum).

    Ghost love score, Sahara, The poeth and the pendulum, Song of myself e quella che per me è l’essenza della poesia mista a potenza: The greatest show on earth.
    Ecco, a primo ascolto mi è mancato quello scossone che ho ricevuto negli album Imaginaerum ed in Endless forms most beautiful.

    Ripeto: dovrei dare giudizio al secondo ascolto… ma mi sono voluto esprimere subito perchè qua ho percepito che mi manca qualcosa a cui mi ero affezionato e che ricercavo.

    • Riascoltato 2 volte.
      Alti e bassi. Alcuni brani li trovo noiosetti (Procession) e sono quelli in cui mi pare che manchi energia e la potenza e la capacità vocale di Floor non venga sfruttata.
      Ci sono brani come Music che mi hanno esaltato ed altri che ho trovato sottotono.
      Peccato che in generale mi sembra manchi molto di quello che ho amato dai tempi di Tarja ad oggi: l’esaltazione della voce della frontwoman.

      La seconda parte dell’album è molto impegnativa. Per quello che cerco io (parere personale) nei Nigthwish è Ad Astra che rispecchia il loro spirito. Il resto piacevole ma sotto tono.

  5. Album pazzesco… Un po’ tutto.. Forse il mio preferito… Grazie anche per i video di YouTube fatti stupendamente con i testi… Un grande lavoro… Ovviamente niente è perfetto… Ma un lavoro così nel 2020 non si trova da nessuna parte se non nel cervello di thoumas

  6. Album spaventoso a mio parere. Molto poco ruffiano, molte canzoni non hanno neanche la classica struttura pop alla Nemo per intendersi (strofa ritornello – strofa ritornello – ritornello finale) e necessitano più di un ascolto per arrivare. Però l’ho trovato veramente un gran disco.

  7. A mio modesto parere un album difficile al primo ascolto, ma se ascoltato e visto tramite i video correlati ti da l idea di quanto sia potente nel suo messaggio..

  8. Brividi…. Non dico altro.. Pazzesco.. Un mix di pink floyd.. Enigma.. Nightwish.. Musica classica. . Lirica.. Ecc ecc… È in questo mix, un energia pazzesca.. L album migliore di sempre… Ne vorrei già un altro… Grazie thoumas..

  9. Difficile tornare indietro dopo un disco del genere.. I nightwish hanno dato un nuovo tetto da superare.. Una favola.. Forse troppo corta.. Io avrei unito ad astra a rendlesness forse perché mi manca la solita traccia lunga.. Cmq capolavoro

  10. Recensione scritta in modo sublime e che mi trova completamente d’accordo su ogni minima riflessione che hai fatto!

  11. Chi rimpiange i vecchi nightwish… Io no… Giusto così! Leggo in giro che l intro di music è lungo, che le canzoni sono facili per flor, che manca il metal, bhe.. L ho pensato anche io ai primi 2 3 ascolti.. Al 4 però mi sono rimangiato tutto troppo bello.. . Con i se con i ma… Marco ha cantato poco… Ma di fatto cosa resta? Qualcuno vorrebbe tornare indietro? Io no anzi voglio continuare ad andare avanti.. Mi godo i primi nightwish ma i brividi degli ultimi anni… Unici.. È questo inizia con i con i canti delle balene, da dove ci avevano lasciato 5 anni fa…per chiudersi con un pezzo fantastico.. Poi noise – endlessness – pan-tribal…sono autentici nightwish!!!

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