#IoLavoroConLaMusica. Si, tutto molto bello, tutto molto dolce e (apparentemente) gentile. Ma diciamocelo espressamente, non è un hashtag che può risolvere l’indecoroso stato dell’arte italiano e, probabilmente, nemmeno il governo.
Al “grido” telematico si sono uniti negli ultimi giorni i più disparati esponenti del panorama musicale italico, dagli artisti di più ampio respiro e noti a quelli meno conosciuti, il tutto per ricordare (giustamente) che anche il mondo artistico/musicale merita le stesse attenzioni di un qualunque altro macrocosmo lavorativo che, negli ultimi mesi, è stato gravemente colpito dalle conseguenze del lockdown.
Il che, ovviamente, non fa una piega, non fosse per due piccoli fattori. Elementi su cui ho messo “gli occhi” dopo aver letto un articolo tanto interessante quanto, a tratti, “scomodo” pubblicato per L’Espresso a firma del redattore Paolo Romano e che invito tutti a leggere. Porta la verità assoluta? Assolutamente no. Vi sono delle castronerie in mezzo? Forse, a mio modesto parere. L’indirizzo della riflessione, però, è quello giusto.
Non è un hashtag che potrà curare la musica italiana e, soprattutto, non è il lockdown ad averla affossata
Non la mancanza di aiuti dello stato ad averla resa un mondo accessibile ai pochi, strutturato a compartimenti stagni ed assolutamente poco “empatico”.
Già, perché se vi è una cosa vera declamata dal Romano tra le sue righe di pixel è che l’universo musicale italiano è chiaramente diviso in tre classi precise, l’una inaccessibile agli altri.
I Big, quelli famosi, i volti noti che più di tutti hanno spiccato proprio in questi giorni sfoderando l’Hashtag #IoLavoroConLaMusica, i “mediani”, quelli di non troppo successo ma nemmeno sconosciuti che riescono a vivere dignitosamente nella loro nicchia facendo ciò che più li convince, e i più piccoli, costretti a raccogliere, quando presenti, le altrui briciole. Tre classi che si fanno guerra, tre settori in cui noi musicisti veniamo smistati a priori già dalla nostra “nascita” e da regole precise (quelle dell’industria) senza, spesso, la possibilità di “risalire” la china.
Non è stato il lockdown a massacrare l’industria musicale italiana che, anzi, già cadeva a pezzi da anni, sotto il peso dell’approccio industriale, dei prodotti di talent, dell’inseguimento dell’evento radiofonico
Un universo musicale che, ai suoi piani alti, ha sempre mostrato un sostanziale disinteresse per tutto ciò che più al di sotto va a comporre la maggioranza del popolo dei musicisti (e degli addetti ai lavori), un mondo ricco di sfumature e di colori (a differenza, spesso, di quello dei grandi palchi).
Inutile, quindi, chiedere aiuti al governo se chi già in posizioni di agio non si gira a guardare indietro verso coloro che, ahimè, vengono dopo e spesso dimenticati, ignorati, destinati a morire a pancia vuota e spesso non per demerito artistico ma, bensì, “industriale”. Apprezzo profondamente il vedere artisti di livello come Irene Grandi, Giuliano Sangiorgi o Ermal Meta (artisti apprezzabili e meritevoli di attenzione) unirsi assieme per chiedere “un aiuto” esterno. Io stesso, un mesetto fa, invitai lo stato a riflettere sulla necessità di un ritorno al “mecenatismo” per aiutare il mondo musicale, già di per sé, in crisi a ripartire. Però, oltre a non bastare un semplice hashtag, mi chiedo quanto effettivamente queste persone si rendano conto della condizione dei microcosmi più colpiti da questa grande crisi, quelli di cui loro stessi non fanno in alcun modo parte.
E non mi riferisco unicamente a quello dei musicisti medio piccoli, ma anche a quello degli addetti ai lavori, degli operatori della musica, i “montatori di palchi” e gli “staccatori di biglietti”, per intenderci. Classi che, posso scommetterci la mia casa, non solo non hanno ricevuto grandi tutele negli ultimi anni ma che, in particolar modo, non hanno visto su di sé grandissime attenzioni, in particolar modo da quei “big” che ora assieme, tutti uniti, si lanciano con appelli social sicuramente gradevoli ma dalla dubbia utilità.
Vorrei chiedere, a questi grandi della musica, se la recente crisi post-lockdown sia riuscita ad aprire i loro occhi sul grande disfunzionamento della musica italiana e mondiale che, più di tutto, colpisce e si manifesta li ai piani più bassi, quei piani che chi residente sui soleggiati attici della discografia non può vedere senza la voglia di abbassare lo sguardo.
Sia chiaro, qui siamo tutti consci e convinti (felicemente) di quanto i vari Meta o Grandi siano LAVORATORI della musica (il musicista è un lavoro, non dimentichiamocelo) e siamo anche tutti convinti di quanto con le loro gesta artistiche si siano meritevolmente guadagnati una pagnotta che nessuno sano di mente penserebbe mai di volergli levare. Va anche detto, però, che non saranno loro i più colpiti dalla crisi ma, anzi, coloro che già da prima soffrivano il processo di decomposizione dell’universo musicale.
Ed è per questo che alla ribalta delle notizie, nelle foto e nelle citazioni sui media, non avremmo voluto vedere i volti di un Giuliano Sangiorgi o di un Vasco Rossi
(contro cui non ho nulla) ma avremmo voluto vedere soprattutto sfoggiare nelle copertine degli articoli e sui post del web l’hashtag #IoLavoroConLaMusica unicamente e principalmente da quei personaggi che la crisi musicale la subiranno e la soffriranno davvero.
Quegli artisti medio piccoli che ugualmente lavorano con la musica ma non riescono a renderla un lavoro redditizio non per demeriti propri ma per le mancanze di un’industria musicale che, ormai, indirizza tutte le sue forze verso il prodotto “di maggioranza” polarizzando la creazione artistica, dimenticandosi di tutte le altre sfumature artistiche presenti nel meraviglioso caleidoscopio della musa Euterpe. Così avremmo voluto vedere maggiormente e più frequentemente l’hashtag #IoLavoroConLaMusica portato dai ragazzi che montano i palchi che organizzano i tour, che gestiscono un impianto fonico, che curano le luci o staccano i biglietti.
Perché non sono solo i big a lavorare con la musica ma anche e soprattutto i minor, i dimenticati, le nicchie, che davvero devono tentare di sbancare il lunario a fine mese con le loro striminzite forze, a differenza di chi, già di successo (con merito o meno non sta a me definirlo) nei periodi peggiori può contare su un conto in banca e su una notorietà cuscinetto.
Così avremmo voluto vedere i big definirsi non solo dalla parte della musica, dalla parte della propria classe, ma soprattutto dalla parte degli altri lavoratori, quelli che loro spesso non riescono a guardare e osservare.
Così avremmo voluto vedere i grandi spingere sotto ai riflettori i più piccoli e non solo armati di hashtag ma anche, e soprattutto, del desiderio e della voglia di cambiare un sistema industriale che soffoca le realtà medio piccole da ormai anni, quelle stesse realtà che garantiscono ricambio, evoluzione, novità, la linfa vitale del progresso musicale.
#IoLavoroConLaMusica. Bell’Hashtag, è importante ricordarlo, ricordare che siamo tutti lavoratori
Ma è altrettanto importante ricordare che non soltanto i volti noti lavorano con l’arte ma, di più e a maggior ragione, anche quelli meno noti o quelli che lavorando dietro le quinte non compariranno mai su di uno schermo televisivo. Bisognerebbe distruggere la furia classista e filo capitalista che ha portato alla divisione “per caste” il mondo musicale, mortificandone la varietà, distruggendone il gusto per la novità.
Ma purtroppo noi piccoli spesso non veniamo ascoltati e proprio per questo abbiamo bisogno che chi in posizioni di favore ci porga l’orecchio, per ascoltare e capire cosa non va effettivamente in un’industria musicale messa in crisi già da anni e che, come nel caso della grande caduta del mattone nel 2008, porterà principalmente alla soppressione dei già afflitti, mentre i grandi, in qualche modo, potranno sempre cavarsela.
Se volete aiutare la musica, guardatevi attorno, guardate in basso, e puntate il dito in alto
Ma non allo stato, o meglio, non solo allo stato che, a differenza di quanto detto da Romano nel suo articolo, se necessario va criticato (la musica porta idee e le idee devono correre veloci anche nella denuncia, ciò non comporta però che lo stato debba voltare le spalle ai suoi oppositori).
Bisogna però puntarlo anche più in alto, a quell’industria musicale disfunzionale di cui i grandi, volenti o nolenti e non per loro colpa, fanno parte. Bisogna rendersi conto di chi sia e quali siano i meccanismi che stanno affamando e annichilendo gli artisti. E sono proprio quelle entità e quei meccanismi a cui proprio i big devono gran parte della loro comodità perché, non dimentichiamocelo, il nemico è l’industria discografica.
Perché? Beh, spiegatemi voi come possa essere “industrializzata” l’arte. Lo vedete, ora, chi è che veramente ha bisogno di cambiare le carte in tavola? E sicuramente servirà uno sforzo maggiore di un hashtag perché si, #IoLavoroConLaMuisca, ma tutti lavoriamo con la musica, anche e soprattutto gli invisibili.
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