Neal Morse: Sola Gratia (recensione)

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Sola Gratia, in uscita l’11 settembre, è il nono album da solista di Neal Morse, fondatore della band Spock’s Beard, polistrumentista e cantante d’eccezione nonché fermo credente del Cristianesimo. Sola Gratia è infatti l’ultimo di una serie di progetti dell’artista con un messaggio Cristiano alla base. Quest’ultimo è un concept album sulla vita di San Paolo che non va oltre il momento della sua conversione.

Neal Morse Sola Gratia

“Sola Gratia è bello tanto quanto ogni altra cosa io abbia mai fatto”

Questo è ciò che dichiara Neal Morse riguardante il suo album. Arroganza? Parliamo di un musicista esperto nella sua arte, che manda avanti un progetto solista da 17 anni per il quale ha lasciato gli Spock’s Beard, ha un festival annuale a lui dedicato, il Morsefest, e che ha fatto parte o ha contribuito al successo di molti gruppi prog-rock tra gli anni 90’ e primi 2000. Sola Gratia vanta tra le sue fila il batterista Mike Portnoy (ex Dream Theater) e il bassista Randy George (Ajalon, Cover to Cover). Si tratta di collaboratori di vecchia data, stavolta solo in veste di esecutori, Neal Morse è l’unico compositore dell’album.

Con tali premesse, come può Sola Gratia non essere un buon album?

All’ascolto l’album è di sicuro suonato magistralmente, vista la qualità dei musicisti. Il mixing è ottimo, nessuno strumento copre gli altri ed è ben riconoscibile l’identità di ogni musicista. Sola Gratia soffre però di due problemi fondamentali: è prolisso e manca di coesione.

Partendo dall’intro, composto da due brani, un prologo di chitarra e voce e un’overture con tanto di sezione d’archi, sono subito presenti entrambi. È troppo lungo e la semplicità del prologo va a cozzare violentemente con la tecnicità dell’overture che però ha un merito, stabilisce il leitmotiv di Sola Gratia: un riff in 7/4 molto ben riconoscibile.

Il resto dell’album è diviso in due parti separate da un intermezzo. Nella prima abbiamo un Paolo perseguitatore dei Cristiani, le canzoni sono pregne di ego pomposità e scherno nei confronti dei perseguitati, come In the Name Of The Lord, falliscono però ad essere memorabili.

Si salva forse l’ultimo brano: Building a Wall che definirei come una fusione tra The Wall dei Pink Floyd e il power rock di Jon Bon Jovi (la voce di Neal Morse ricorda molto la sua in questo brano). L’inizio di Sola Gratia è poco complesso, cerca di essere diretto ed efficace, però l’intermezzo distrugge tutto quanto. Si tratta di un brano ultra-tecnico, degno di un disco dei Dream Theater, che purtroppo spezza completamente la narrativa.

La seconda parte inizia con Overflow, una lenta ballata con nessun cambio di dinamica, un 180 rispetto all’intermezzo. Il resto di Sola Gratia sarà così: lento e prolisso, parliamo di brani più lunghi di sei minuti, che fondamentalmente si differenziano nell’uso di melodie sempre più tensive fino ad arrivare alla conversione di San Paolo nel brano The Light On The Road To Damascus, introdotto però dal brano più veloce dell’album: Seemingly Sincere.

Queste canzoni però non sono i brani finali di Sola Gratia, ce ne sono altri due di puro Christian worship rock, uno dei quali: The Light Of The Lord, contiene un assolo di chitarra con tanto di shred. Nei brani finali che rappresentano l’annullamento dell’ego di fronte a Dio non dovrebbe essere presente un tale tecnicismo, che infatti stona moltissimo con la canzone, soprattutto nello stile scelto.

Sola Gratia è un album che fa sfoggio della tecnica e dell’esperienza dei suoi musicisti, ma lo fa in modo inopportuno

spezzando la narrativa stabilita del passaggio dall’assoluto ego di San Paolo al suo annullamento di fronte a Dio. L’album sa molto di già visto, non si sente sperimentazione, in effetti già dal nome si evince come in Sola Gratia, Neal Morse voglia accontentare i fan affezionati, specialmente chi ha apprezzato il suo quarto lavoro da solista Sola Scriptura (2007).

vedi anche: Voivod – The End of Dormancy (Recensione)

Eugenio Gabrielli
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