Tra antico e moderno: i Blind Guardian e “The God Machine” [Recensione]

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I Blind Guardian pubblicano il loro nuovo album The God Machine a tre anni dalla precedente uscita, il 2 settembre 2022, per Nuclear Blast Records.

La storia della band parla per loro. Abbiamo a che fare con i famosi Bardi teutonici, originali portatori di una formula di Power Metal intrisa fin nel midollo di un sentimento medievale diffuso, pregno di una fierezza da prodi cavalieri, macchiato di una cupezza da oscurantismo e superstizione. Impossibile non essere trasportati, attraverso la loro musica, in un universo fantasy dai confini magici e incantati, un po’ come la trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson o la imminente serie di Prime Video Gli Anelli del Potere ci hanno mostrato e ci mostreranno ancora.

The God Machine risponde prontamente ai dettami di questa impostazione, arricchendo la formula con un importante tocco di modernità. Vediamo come.
Tra antico e moderno: i Blind Guardian e "The God Machine" [Recensione] 1
Cover di The God Machine dei Blind Guardian

Ad aprire l’album ci pensa Deliver Us from Evil: “Liberaci dal Male”. Il brano si muove attraverso una serie intricata di passaggi rapidi ed epici in un’ambientazione di imponenti cavalcate intrisa di tematiche religiose, guidati dalla maestosa e indimenticabile voce di Hansi Kursch, sostenuto da immensi cori all’interno dei quali si è immediatamente trascinati.

L’atmosfera non perde l’aura di religiosità nella seguente Damnation, guadagnando ulteriori punti in solennità e definitività. I Blind Guardian si muovono stavolta in una struttura molto rapida nelle strofe, ma che perde velocità nel bridge fino ad arrivare ai potenti colpi scanditi dal magnifico ritornello, e la furia che ne segue è da fine del mondo dell’immaginario barbarico: le profonde campane che scoccano nel bridge sono il perfetto elemento di commistione con il mondo cristiano, per una perfetta identificazione di quell’immagine medievale, di quel mondo a metà tra cristianità e paganesimo che la band contribuisce a costruire con la sua musica.

L’intro di Secrets of the American Gods è poi un piccolo capolavoro, il culmine di questo primo terzetto di brani di The God Machine. I temi solenni di Damnation vengono ulteriormente approfonditi, traendo spunto dall’opera di Neil Gaiman, anche in questo caso prediligendo soluzioni più lente e meno ritmi serrati e incalzanti. Brano maestoso e godibile pur nella sua non leggerissima durata (oltre sette minuti), regala una splendida interpretazione ancora una volta di Hansi Kursch, ma anche un pregevole lavoro di chitarre, con uno scambio di assoli da pelle d’oca. Il giro d’archi nel finale è il perfetto coronamento di questo primo terzetto di brani.

La solennità e le maestosità un po’ anticheggianti sono abbandonate, anche in favore di una varietà nell’ascolto, nella successiva Violent Shadows.

Riff veloci e grezzi, da tradizione più Heavy che Power (qualcuno ha detto Judas Priest?), sono il cardine di questo brano, portandoci in un mondo più contemporaneo. Quasi una sorta di giustificazione di quel Dio-Macchina a cui il titolo dell’album fa riferimento, i Blind Guardian intersecano un mondo antico di religioni e credenze con uno moderno e futuristico di automi e macchinari.

Un’intersezione perfettamente rappresentata da Life Beyond the Spheres. Cupa e misteriosa, densa di tastiere e synth estremamente moderni, unisce l’epicità e la solennità fantasy medievale con la modernità delle macchine e degli ingranaggi. Un mondo di castelli digitali e praterie del cyberspazio si apre, secondo dopo secondo, al nostro ascolto, eretti dalla monumentalità del riff principale e dalla poderosità dei bridge, per poi essere ammirati nella loro stupefacente e intimorente magnificenza nel canto del ritornello.

Arriviamo quindi al punto culminante di questo mondo antico e moderno insieme delineato dai Blind Guardian in The God Machine: Architects of Doom.

Annunciato da lontane chitarre arabeggianti e da percussioni imponenti che si uniscono nel definire un’atmosfera lontana e fumosa, le strofe ci trascinano immediatamente e senza possibilità di scampo in un ritmo coinvolgente e forsennato, incalzante verso un perfetto culmine. Giunti fin qui si può solo, ancora una volta nello stupore e nel timore, ammirare le creazioni erette dagli Architetti del Destino.

Dopo questo secondo e potente terzetto, la band si cala in un placido pozzo di tranquillità semiacustiche offerte dalla ballad Let It Be No More. Anche in questo caso i Blind Guardian riescono a regalarci un brano capace di viaggiare parallelamente e senza intoppi in un mondo fantasy antico e in un altro più fantascientifico, integrando sonorità arpeggiate con tastiere e pad quasi stranianti ed estranee, integrandosi perfettamente in questa meravigliosa visione.

Blood of the Elves riprende un po’ gli intenti di Violent Shadows, recuperandone i riff più potenti, veloci e aggressivi che l’avevano caratterizzato. Probabile hit dei futuri live del gruppo, la canzone regala, tra i vari spunti, anche un interessante e rapido affresco apocalittico, in particolare nel bridge: impossibile non apprezzare il lavoro svolto in primis dalle chitarre, dalla batteria scandita unicamente dalla doppia cassa fissa e dai rintocchi della campana del piatto ride che sanno tanto di Armageddon imminente.

In conclusione The God Machine rivela Destiny.

Brano parzialmente vicino al mondo Power delineato dai Kamelot, in particolare durante il loro periodo Faustiano, è forse la composizione meno riuscita dell’album, quella che meno riesce a coniugare la solennità del mondo antico con l’inconsistenza di quello moderno. Le sensazioni interrogative che vengono suscitate durante l’ascolto sembrano quasi far intendere la volontà di concludere l’album con una sorta di finale aperto, in una non perfetta o non chiara conclusione delle vicende, lasciandoci con un pizzico di sorpresa e forse di amaro in bocca. Un episodio enigmatico e imperfetto che però potrebbe essere anche la perfetta conclusione di quest’opera.

Ad ogni modo, i Blind Guardian ci hanno regalato con The God Machine una superba prova di quanto ancora hanno da dire, in una carriera di quasi quarant’anni e comunque a ben trent’anni da quel Somewhere Far Beyond da molti considerato uno dei primi e più alti punti della loro discografia. La band delinea con costanza e coerenza questo universo fantasy e fantascientifico, a volte favorendo l’uno a volte l’altro e a volte equilibrando i due mondi.

L’ispirazione nasce, oltre che dal già detto mondo tolkieniano, anche dalle penne di scrittori fantasy moderni, come Patrick Rothfuss e Brandon Sanderson, ma anche Andrzej Sapkowski, fino ad arrivare alla saga televisiva scifi Battlestar Galactica, che ben raccontava l’epopea post-futuristica di un’umanità sconfitta dai robot (i terribili Cylons) e alla ricerca del primo pianeta, la Terra, su cui far germogliare nuovamente la propria civiltà.

Da questo immenso arsenale di cultura pop, Hansi Kursch e soci riescono a offrire un prodotto di straordinario livello esecutivo e produttivo, nonché molto ispirato e coinvolgente per la sua pressoché totalità. Il vocalist, com’è evidente, tiene saldamente il controllo della band, attorno a lui e su di lui vengono costruiti i brani, e non potrebbe che essere così. Ma la forza della struttura ritmica è frutto del mirabile e visionario lavoro di Frederik Ehmke, che ci regala una prestazione alla batteria pulita, efficace, ispirata, in un perfetto equilibrio tra gusto esecutivo, virtuosismo e supporto.

Un grande plauso va destinato poi alla coppia di chitarristi André Olbrich e Marcus Siepen, perfettamente integrati e interconnessi sia tra loro che con il complesso intrico di cori e tastiere che completa il magnifico affresco di The God Machine.

Non ci resta quindi che aspettare di vedere i Blind Guardian eseguire The God Machine dal vivo e attendere fiduciosi ulteriori approfondimenti di quanto eseguito.

Daniele Carlo
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1 commento su “Tra antico e moderno: i Blind Guardian e “The God Machine” [Recensione]”

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