Mentre il nuovo DPCM imponeva la chiusura di alcuni esercizi commerciali perché giudicati non essenziali, e tra questi i negozi di musica, approdava in questi ultimi e in tutte le principali piattaforme digitali Long Day Good Night, l’ultima fatica dei Fates Warning, uscita il 6 novembre per Metal Blade Records.
L’ultimo album rilasciato con la medesima etichetta era il lontano FWX (2004). Quattro anni son passati dall’eccellente Theories of Flight, che fu un discreto passo in avanti rispetto al precedente Darkness in a Different Light (2013), il loro grande ritorno dopo un lungo periodo di silenzio. Dell’ultimo album si consolida la line-up, con Joey Vera al basso, Bobby Jarzombek alla batteria e naturalmente il duo Ray Alder alla voce e Jim Matheos alla chitarra.
Quattro anni che hanno visto Alder e Matheos iniziare o proseguire progetti di estremo interesse. È del 2019, infatti, What the Water Wants, l’esordio da solista di Alder (leggi la recensione), ed è dell’anno scorso anche il secondo lavoro del duo Arch/Matheos, Winter Ethereal, altro album discreto che non riusciva tuttavia a eguagliare l’ottimo Sympathetic Resonance (uscito nell’ormai lontano 2011 per la medesima etichetta). Buoni album che lasciavano se non altro intendere che i membri dei Fates Warning fossero, chi più chi meno, alive and kicking.
35 anni di storia, un merito incalcolabile rispetto alla nascita del genere a cui tuttora appartengono – il progressive metal – e un posto d’onore nel terzetto “classico” di quello stesso genere, assieme a Dream Theater e Queensrÿche (leggi anche lo speciale sulle origini del power metal a stelle e strisce). Quello che i Fates Warning avevano da dire, insomma, lo hanno detto. Motivo per ritirarsi dalle scene? Nient’affatto! Semmai, per mettere in prospettiva le nuove uscite e ammettere che, benché la classe sia la stessa, le idee… chissà.
I Fates Warning hanno presentato Long Day Good Night come un album composito, che tocca diversi stili, diversi umori, privo di un minimo comun denominatore tra le canzoni. Nelle parole di Alder:
“Ci sono dei brani con inserti di elettronica e alcuni con un feeling quasi immateriale, così come altri con un groove molto diretto, almeno dal nostro punto di vista. E ci sono anche brani piuttosto duri. Abbiamo provato a trasmettere all’ascoltatore un insieme di cose diverse, anziché fare un album in cui tutte le canzoni suonassero allo stesso modo.”
La descrizione è corretta, ma è interessante chiedersi fino a che punto tale pluralità sia realmente il frutto di uno sforzo intenzionale o non piuttosto il risultato delle diverse esperienze dei musicisti in questi ultimi anni. In alcuni brani di Long Day Good Night è ad esempio possibile udire echi dei Redemption, il gruppo in cui Alder ha militato tra il 2005 e il 2017 contribuendo alla realizzazione di cinque album, di cui almeno quattro di alto valore. (E quando se n’è andato si è sentita la differenza.)
La prima spia che qualcosa è cambiato in Long Day Good Night è la durata dell’album e il numero dei pezzi: 72 minuti per tredici brani. Se faceste la media senza sapere di chi sia l’album, probabilmente non pensereste si tratti di un gruppo progressive. Ma queste sono le aspettative, poi c’è l’ascolto vero e proprio. E c’è da constatare che quei pezzi sono molto più diretti di tutto ciò che i Fates Warning abbiano mai prodotto. Penso al rock scatenato ma leggero di Glass House, al pop-rock di Now Comes the Rain, all’hard rock di Begin Again, a brani duri e mai eccessivamente cervellotici come Shuttered World (in cui si sente il retaggio dei Redemption), Alone We Walk, Scars e Liar.
Nemmeno mancano momenti più pacati come Under the Sun, When the Snow Falls (con Gavin Harrison alla batteria) e The Way Home, sorta di power ballad dalle improvvise accelerazioni. Se l’album si limitasse a questi undici brani – incluso il brano acustico di chiusura, laconicamente intitolato The Last Song – potremmo stare per ore a decantarne meriti e demeriti. Si tratterebbe di un album variegato non soltanto negli stili e negli umori, come ricordava Alder, ma anche nella qualità dei brani.
Bastano tuttavia due pezzi, per un totale di venti minuti, a riscattare un lavoro altrimenti avaro di brani memorabili. La opener di Long Day Good Night, The Destination Onward, ha un inizio in sordina, con un andamento gradualmente costruito da chitarra e sezione ritmica, che poi esplode in un riff rabbioso in grado di aprirsi a improvvisi impeti di entusiasmo, guidati dalla maestosa voce di Alder. Un brano dai diversi episodi, come nella miglior tradizione del progressive, ben costruito, quasi fosse un tentativo di razionalizzazione delle emozioni umane.
Stesso dicasi per gli undici minuti, ancora più ambiziosi, di The Longest Shadow of the Day. È il pezzo da novanta dell’album, con un incipit sorprendente che mette in scena episodi di jazz, un sensazionale assolo di basso di Joey Vera che culmina in un’esplosione collettiva (forse debitrice dei Tool), prima di ritornare su ritmi più blandi che fanno spazio alla chitarra solista di Matheos per poi avviarsi alla conclusione.
Archiviato il ritorno di un gruppo cult come gli Psychotic Waltz (leggi la recensione), nonché le ultime fatiche di mostri sacri del prog-metal come Pain of Salvation (leggi la recensione) e John Petrucci, il 2020 si arricchisce dunque dell’uscita di uno dei più grandi gruppi nella storia del genere. La buona notizia è che Long Day Good Night dimostra che i Fates Warning hanno ancora qualcosa da dire; la notizia meno buona è che ciò che hanno da dire è oggi “diluito” in una quantità di musica meno interessante.
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I gusti personali non si discutono ma definire questo disco interessante solo per i primo ed il penultimo brano vuol dire averlo ascoltato poco, anche se è vero che da poco è uscito.Un gruppo come I Fates Warning cerca di non essere prevedibile per cui il canovaccio del brano lungo o della suite può variare. Fra l’altro non la complessità di un brano non si misura solo nel minutaggio, ma anche nello sviluppo armonico e nella ricerca sonora.In questo caso specifico Matheos e compagni riescono a fare sembrare semplici cose difficili, un po’ come più volte hanno fatto i Rush.
Buongiorno Luca, ti ringrazio per il commento. Anzitutto ti invito a non assumere che se altri ritengono un album meno valido di te è perché non l’hanno ascoltato “bene”. Due persone possono ascoltare lo stesso album lo stesso numero di volte e arrivare a conclusioni diametralmente opposte. Ciò premesso, mi spiace aver dato l’impressione che il minutaggio sia parte così importante del mio giudizio (e di questo malinteso non incolpo il lettore, naturalmente). Quella sul minutaggio era l’osservazione preliminare. Nel giudizio ho semplicemente affermato che molte canzoni del disco suonano estramemente “dirette”. Nemmeno le ho bocciate tutte (ho scritto “avaro di brani memorabili”, non “privo”), limitandomi a dare un giudizio generale e lasciare che ciascuno giudicasse le singole canzoni da sé. Alla fine, come puoi vedere, non si tratta di una stroncatura. Cari saluti e alla prossima
Sono fondamentalmente d’accordo con Luka, credo che sia un album che scivola dentro lentamente) ciò non vuol dire svalutare l’ascolto di chi recensisce. Ascolto prog. Metal, rock in genere da quarant’anni ma ciò non toglie che a volte è necessario lo stato d’animo giusto per approcciarsi a un disco. Detto ciò, credo che oltre ai due brani da te citati meritino menzione speciale The way home, monumento a quel prog metal che proprio i Fates hanno definito con Perfect Simmetry, e alone we walk, miracolosa nella sua apparente semplicità.
Ci sono un paio di brani “classic” di cui avrei probabilmente fatto a meno, ma il resto scintilla, lavoro di classe superiore. E’ anche la prima volta che non si sente la mancanza di Zonder. I suoni, poi, sono spettacolari.
Probabilmente il miglior disco dei FW da Disconnected.
Anche io lo trovo un disco spettacolare, solo apparentemente è semplice in alcuni frangenti e si rivela nella sua profondità poco alla volta.Senza volte discutere i gusti personali, qui siamo al cospetto di una prova maiuscola per maturità e composizioni.Matheos riesce nell’ intento di scrivere brani di spessore e contenuto senza autocitarsi. La sensazione è quella di allargare ancora il suo campo d’azione lasciando da parte il ( grande!!) progetto parallelo Arch/ Matheos.Ho apprezzato tantissimo il precedente album, ma trovo inutile fare paragoni, siamo di fronte ad un episodio differente nelle intestazioni e nel sound, quante altre bande riescono a non ripetersi ( troppo) dopo tanti anni e tanti ottimi dischi.?Personalmente ne apprezzo proprio il diverso approccio ( davvero vario) oltre alla strabiliante prova strumentale( Jarzombek è mostruoso) non è da meno una produzione calda e cristallina, poi i gusti personali non si discutono, ma qui di sostanza ce n’è eccome.