50 anni e non sentirli: piccola discografia essenziale dell’anno 1970

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Dentro e fuori la musica, il 1970 fu molte cose. La politica globale fu dominata dalla guerra in Vietnam (e relative proteste) e dal conflitto israelo-palestinese. Fu l’anno della firma del Trattato di Lussemburgo e della vittoria di Salvador Allende in Cile. In Italia fu approvato lo statuto dei lavoratori. Ma, non ce ne vogliano i giuslavoristi, per gli italiani fu soprattutto l’anno dei Mondiali in Messico, dell’indimenticabile 4-3 contro la Germania e della finale persa contro il Brasile di Pelè.

Il mondo della musica fu sconvolto da due eventi: lo scioglimento dei Beatles e la morte di Jimi Hendrix (leggi la recensione di “Electric Ladyland”), seguita di poche settimane da quella di Janis Joplin. Fu inoltre in quell’anno che i Black Sabbath (leggi la recensione di “Paranoid”) inaugurarono quello che in poco tempo sarebbe diventato uno dei principali trend della musica globale: l’heavy metal, forse il più grande fenomeno di massa della storia del rock.

Il 1970 vide la pubblicazione di diverse decine di album, che quest’anno hanno compiuto i loro cinquant’anni, album fondamentali per gli sviluppi della musica popolare, nel rock e non solo. Ne ho scelti dieci, che considero tra i più importanti.

Mi scuseranno i lettori per una serie di omissioni. Alcuni album erano decisamente troppo scontati per apparire in una lista di sole dieci raccomandazioni. Non troverete il trittico hard rock: Led Zeppelin III, Paranoid dei già ricordati Black Sabbath, o In Rock dei cugini Deep Purple. Non troverete il cantautorato di After the Gold Rush di Neil Young o Bridge over Troubled Water di Simon & Garfunkel (benché quest’ultima omissione faccia particolarmente male). Non ci sarà Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Questi album avrebbero potuto, e forse dovuto, esserci. Non ci saranno per il semplice desiderio di menzionarne altri, spesso altrettanto validi, ma di cui si sente parlare di meno. Infine, non troverete Let It Be, perché, in tutta franchezza, non vale tre minuti di Revolver, Sgt. Pepper o altri album del tardo periodo dei Beatles.

King Crimson, Lizard

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Nell’arco di soli diciotto mesi – tra il giugno del 1969, con le registrazioni di In the Court of the Crimson King, e il dicembre del 1970, con l’uscita di LizardRobert Fripp scosse il mondo della musica con tre album che definirono i canoni del progressive rock. Il genere, di natali inglesi, era destinato in breve tempo a contagiare il resto d’Europa. Con i King Crimson il rock smette di essere un genere per ragazzi scalmanati e si avvicina, forse per la prima volta, alla musica “colta”: alla varietà e imprevedibilità armonica del jazz si uniscono le ambizioni e la perfezione formale della musica classica. In Lizard le intuizioni del jazz, in particolare quello freeform, sembrano a tratti prendere il sopravvento. Se Cirkus conserva un barlume di ordine, il tour de force di oltre ventitré minuti che dà il titolo all’album mantiene la medesima compostezza incrementando, di contro, il livello di astrazione. Fripp sarebbe giunto a considerarlo un mal riuscito album di transizione. Per tutti gli altri sarebbe rimasto uno dei capolavori dei King Crimson, probabilmente superiore al di poco precedente In the Wake of Poseidon. Compaiono qui due ottimi musicisti che non avrebbero mai più registrato con la band, Andrew McCulloch alla batteria e, da poco scomparso, Gordon Haskell al basso.

Miles Davis, Bitches Brew

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Se già negli anni ‘60 il rock aveva timidamente iniziato a civettare con il jazz, il principale responsabile della fusione tra i due generi fu d’altronde il più importante musicista e compositore jazz del ventesimo secolo. L’inizio del jazz-rock può convenzionalmente essere fatto risalire a In a Silent Way (1969). Miles Davis introdusse nel jazz la strumentazione rock con l’aiuto di una nuova generazione di musicisti, di lì a poco destinati a lanciarsi in carriere longeve di grande successo. A definire il nuovo sound sono soprattutto i tre pianisti, Chick Corea, Herbie Hancock e Joe Zawinul. Se In a Silent Way fu la “palestra” in cui esercitare un nuovo discorso musicale, il doppio album Bitches Brew ne fu il compimento. In quei due album, Davis orchestrò delle lunghissime jam, talvolta di oltre venti minuti, nelle quali sembrò che l’unica istruzione ricevuta dai musicisti fosse quella di esplorare le possibilità della nuova strumentazione all’interno di coordinate ritmiche e armoniche molto essenziali. È come se all’attenzione del pubblico fosse presentato il lavoro stesso di destrutturazione del sound, pur con l’ausilio degli accorgimenti di post-produzione di Teo Macero. Ne nacque un nuovo universo sonoro, in cui era possibile udire echi della musica popolare dell’Africa, a cui Davis fu sempre legato, amalgamati con il caos sonoro della metropoli di New York. Né il jazz né il rock sarebbero più stati gli stessi.

Nico, Desertshore

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Terminata la collaborazione con i Velvet Underground, Christa Päffgen, in arte Nico, si rese protagonista di una tra le carriere soliste più significative della sua epoca. Se già quell’esperienza aveva significato una presa di distanza dagli entusiasmi della “summer of love” e dall’ottimismo “lisergico”, la Nico solista ottenne un effetto persino più “decadente” mentre si allontanava in modo ancora più vistoso dalla musica dei suoi contemporanei. Il suo stile musicale, e soprattutto canoro, aveva ben poco a che fare con ciò che era stata fino a quel momento la musica rock (se pensiamo in particolare alle due principali voci femminili dell’epoca, Grace Slick e Janis Joplin). Dopo l’acerbo Chelsea Girl (1967) e l’eccellente The Marble Index (1968), Nico rilascia nel dicembre 1970 il suo capolavoro, Desertshore. In soli ventotto minuti, con l’ausilio dell’harmonium e della viola di John Cale, ma soprattutto con uno stile di canto che si richiamava molto più al teatro tragico e al canto religioso che alla musica popolare, Nico mette in scena un’autentica galleria di orrori, di memorie angoscianti, di spettri e sogni opprimenti che hanno pochi eguali nella storia della musica. Passato pressoché sotto silenzio all’epoca della sua pubblicazione, Desertshore costituisce una delle gemme dimenticate della stagione d’oro del rock.

Soft Machine, Third

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Se il jazz-rock fu senza dubbio una creatura di Miles Davis, quando il nuovo linguaggio iniziò a diffondersi nel resto del mondo alcune scene musicali si dimostrarono eccezionalmente pronte a recepirlo, assimiliarlo e riproporlo in nuova veste. La più predisposta fu la scena di Canterbury, con i Soft Machine di Robert Wyatt in prima linea. Nati con un sound psichedelico, a cui già nel secondo album avevano aggiunto elementi presi in prestito dal jazz, i Soft Machine registrarono con il doppio Third uno dei più importanti album dell’epoca d’oro del progressive rock. L’album fu il punto di incontro tra l’improvvisazione del jazz (alcune parti furono registrate dal vivo) e la cura affidata al lavoro di post-produzione, con segmenti accelerati o rallentati, tape collage e altre operazioni di intervento sulle tracce. Il risultato furono quattro lunghe suite, ciascuna occupante una delle facciate dell’album, in cui si alternavano momenti di improvvisazione, sperimentazione sonora e “collage” attraverso la manomissione dei nastri. Nelle mani di Wyatt e soci, il jazz-rock si era fuso con le inclinazioni elettroniche e avanguardistiche della scena di Canterbury per creare qualcosa di completamente diverso.

Tim Buckley, Lorca

Tim Buckley - Lorca 1970

Presentatosi al pubblico come semplice (e a tratti banale) cantautore nel solco di Bob Dylan, Tim Buckley avrebbe finito per stravolgere totalmente il modello del cantautorato dell’epoca. Buckley mescolò con originalità il folk con la psichedelia incorporando elementi dal jazz elettrico – grazie un pianista superlativo come Lee Underwood – e definì uno stile di canto del tutto rivoluzionario. Poco attento ai testi e del tutto disinteressato alle canzoni di protesta, la musica di Buckley era rivolta all’esplorazione dell’ignoto, della psiche e del cosmo. Un’esplorazione in cui la voce costituiva uno strumento tra gli altri, certamente il più importante, anziché un mezzo per trasmettere un qualsivoglia contenuto. Secondo un’affermazione, probabilmente apocrifa, attribuita allo stesso Underwood, Buckley fece per la voce ciò che Jimi Hendrix aveva fatto per la chitarra. Ma se le intuizioni di Hendrix furono recepite e rielaborate da un’intera generazione di chitarristi, il canto degli anni e dei decenni successivi avrebbe fatto molta più fatica ad assimilare le tecniche e le modulazioni di Buckley. L’omonimo brano di apertura di Lorca è una discesa senza fine, in cui la voce – a metà strada tra le litanie di un muezzin e le grida di un disperato – tenta liberarsi dalle pastoie della vita terrena mentre viene inesorabilmente trascinata nell’abisso. Con il sonnolento dialogo tra voce e chitarra (ancora di Underwood) di Driftin’ e il jazz-folk scalmanato di Nobody Walkin’, Lorca rappresenta – con Starsailor, anch’esso del 1970 – una delle performance canore più straordinarie della storia del rock.

Popol Vuh, Affenstunde

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Mentre nel resto del mondo si diffondeva la moda dell’hard rock e aveva inizio la stagione del progressive, in Germania una nuova generazione di musicisti si diede consapevolmente il compito di sviluppare un discorso musicale del tutto svincolato dal rock angloamericano. Anche il rock tedesco fu a suo modo un rock “psichedelico”, ma fu un rock che non traeva ispirazione dal folk, come la psichedelia californiana, o dal blues, come il rock britannico. La fonte di quello che la stampa britannica avrebbe definito krautrock giungeva piuttosto dall’avanguardia elettronica di Karlheinz Stockhausen. Florian Fricke fu tra i tanti musicisti dell’epoca che trassero intuizioni e folklore dalla spiritualità orientale, in particolare indiana. Ma, almeno all’inizio, la musica dei Popol Vuh fu anche il riflesso della fascinazione dei contemporanei per l’esplorazione dello spazio. In Affenstunde, il loro album d’esordio, la suite in tre parti Ich Mache eine Spiegel riflette le tre anime del gruppo, che troviamo invece perfettamente compendiate nei diciotto minuti di Affenstunde: un’anima “cosmica”, un’anima “tribale” e un’anima che i posteri avrebbero definito “ambient”. Nel giro di pochi anni i Popol Vuh avrebbero abbandonato le prime due, infondendo la terza di una spiritualità arcaica e pastorale. A portare avanti la missione “elettronica” di esplorazione del cosmo (cioè la kosmische Musik) avrebbero provveduto soprattutto i Tangerine Dream e Klaus Schulze. Affenstunde ne rimane nondimeno una delle prime e più genuine testimonianze.

Third Ear Band, Third Ear Band

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Nata a Londra nella seconda metà degli anni ’60 – all’epoca degli hippie, del folk revival (leggi qui: Blackmore’s Night) e dell’interesse per le culture orientali – la Third Ear Band fu uno dei complessi più originali del periodo, che operò un’affascinante e compatta fusione tra differenti tradizioni: dalla musica celtica al raga indiano, passando per le danze tzigane e le musiche da meditazione. Il tutto filtrato da uno stile di improvvisazione molto vicino al free jazz e un piglio armonico che rendeva il risultato complessivo qualcosa di simile all’avanguardia minimalista. Il gruppo conquistò un piccolo seguito suonando all’UFO Club, lo stesso che aveva lanciato i Pink Floyd, ma già dalla strumentazione (oboe, viola, violoncello, tablas) era facile intuire avessero poco a che fare con il rock psichedelico. L’album che rimane il loro capolavoro, Third Ear Band (anche noto come Elements), è una serie di lunghe suite improvvisate dedicate ai quattro elementi della filosofia greca. Dalla trance meditativa di Water al baccanale selvaggio di Fire, dalle esplorazioni metafisiche di Air passando per le danze tribali di Earth, l’album Third Ear Band riuscì nel curioso intento di fondere la psichedelia, il folk e l’improvvisazione in qualcosa di molto vicino alla musica da camera.

Frank Zappa, Burnt Weeny Sandwich

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Non si può certo dire che nella discografia di Frank Zappa ci sia scarsità di capolavori. Due di questi, caso vuole, furono pubblicati proprio nel 1970: Burnt Weeny Sandwich, uscito a febbraio, e Weasels Ripped My Flesh, ad agosto (oltre al meno rilevante Chunga’s Revenge, di dicembre). Possiamo immaginare che, per la presente lista, molti avrebbero sperato di trovare il secondo. Ma Burnt Weeny Sandwich è, realmente, uno dei migliori album di Zappa. Forse la sintesi perfetta tra l’interesse sempre coltivato per la musica classica, che possiamo osservare nella complessità e perfezione formale di Holiday in Berlin (oltre all’omaggio a Stravinsky di Igor’s Boogie); quello per il jazz, e il jazz-rock in specie, chiaramente percepibile nella lunga jam di The Little House I Used to Live In; e infine lo spirito goliardico di WPLJ e del più classico dei doo wop (altra passione di Zappa), Valarie. Dagli arrangiamenti alla scelta degli strumenti, che includevano fiati e archi, Burnt Weeny Sandwich fu l’ennesimo e perfettamente riuscito tentativo di Zappa di realizzare una musica che potesse in qualche modo definirsi “totale”.

The Stooges, Fun House

The Stooges - Fun House 1970

Il 1970 non fu soltanto sperimentazione, compostezza formale, manierismo. Mentre altri artisti si confrontavano con nuove soluzioni, spingendo il rock oltre i suoi limiti e spesso allontanandosi dall’idea stessa di canzone, altri gruppi si incaricarono di opporsi alla deriva “sperimentalista” che il rock stava attraversando in quegli anni. Fondati nel 1967 ad Ann Arbor, Michigan, gli Stooges di Iggy Pop furono essenzialmente un gruppo hard rock (il centro della loro musica era il riff), con un debito evidente per la tradizione del blues, ma con un suono ancora più sporco. La loro musica compendiò tutti gli stereotipi del rock: dal canto sguaiato all’atteggiamento sessualmente esplicito, dell’esaltazione del teppismo al modo martellante e ossessivo di suonare tutti e tre gli strumenti. A questi stereotipi unirono però una sensibilità e un’estetica che nell’arco di pochi anni fan, critici e giornalisti avrebbero definito “punk”. Fun House, secondo album della band, è una breve carrellata di brani il cui unico intento sembra quello di riportare il rock alle sue radici: riff ossessivi e reiterati (a cominciare da Down on the Street), assoli sporchi, cannonate di basso e martellate di batteria (specialmente in T.V. Eye), urla psicotiche (L.A. Blues), testi sconclusionati inneggianti alla vita dissoluta. Con 1970 e Fun House gli Stooges dimostrarono di aver assimilato la lezione dei Rolling Stones sull’uso del sassofono nel rock n’ roll.

The Who, Live at Leeds

the who live at leeds

Il 1970 è l’anno in cui uscirono i primi due album dei Black Sabbath. Da allora, il rock “duro” per definizione sarebbe stato l’heavy metal, e con il passare degli anni lo sarebbe stato sempre di più. Prima di allora, tuttavia, diversi gruppi britannici, figli più o meno legittimi del blues, avevano suonato il rock n’ roll in modo particolarmente scalmanato e rumoroso. I più importanti tra questi furono gli Who. Uscito a meno di un anno dall’evento di Woodstock, all’epoca in cui i Led Zeppelin (leggi qui: Kashmir, un brano immortale) stavano ridefinendo il significato stesso del concerto rock, Live at Leeds è senza dubbio una delle migliori performance rock dal vivo che siano mai state tramandate. L’energia, il baccano, l’irruenza sfoggiata da Roger Daltrey, Pete Townshend, John Entwistle e Keith Moon, anche a confronto di quanto il rock avrebbe prodotto nei decenni successivi, rimangono ineguagliati. Spiccano una versione estesa di My Generation, il blues-rock forsennato di Magic Bus e la riproposizione di Summertime Blues, uno dei brani più noti di Eddie Cochran.

Federico Morganti
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