Like a Prayer è il quarto album in studio di Madonna Ciccone, arrivato proprio in un periodo di svolta nella vita della cantante; uscì nel 1989 per la Warner.
Ogni volta che una starlette sale alla ribalta dello showbiz, c’è il giornalista di turno che afferma: “Eccola, è lei la nuova Madonna”. È stato detto soprattutto di Lady Gaga (qui la recensione di Chromatica), che, ad inizio carriera, ha indubbiamente preso a piene mani dalla quarantennale carriera della Ciccone – salvo poi discostandone, perché trattandosi in ambedue i casi di personalità geniali e fuori dal comune, il plagio è solo un trampolino di lancio.
La nuova Madonna è Madonna. E sempre lo sarà. Capace di continuare a divertirsi a più di sessant’anni, icona pop del Vecchio e del Nuovo Millennio, simbolo di femminilità prorompente e libera – di eros e porno, di chi è in grado di ribaltare il concetto di mercificazione semplicemente abbracciandolo (chi si dimentica Erotica?) – di un’artista che ha spaziato in ogni genere, che, come un grande statista, ha saputo circondarsi dei migliori collaboratori possibili: figura talvolta scomoda, talvolta osannata; certamente indimenticabile.
Indimenticabile è Like a Prayer, forse il suo lavoro migliore, che risale al 1989: motivetti che tutti conosciamo, pur essendo nati svariati anni dopo.
Brani, in una coloratissima fusion, che sono nati dalla penna, oltre che di Madonna, di Prince, di Patrick Leonard (un’altra leggenda, che ha composto per Elton John, collaborato con Roger Waters…).
Si parta da un paio d’assunti: la Ciccone non ha una gran voce. Non ne ha un gran controllo, non ha una grande estensione, ma eccelle coi mezzi che la natura le ha messo a disposizione, scegliendo un registro limitato – creando uno stile personale, fatto più di parlato che di cantato, di chiacchiericcio da musical; ben riconoscibile in tutta la sua discografia, fino al recentissimo Madame X. E tale predisposizione all’estremo sfruttamento, positivo, della propria mancanza di talento – perché il vero talento di Madonna è l’essere Madonna è espressa sin dal title track e prima traccia Like a Prayer, un inno immortale rock fra influenze gospel e funk: sonorità rotonde, quasi parodistiche – in cui l’unico uomo che la protagonista ama è in realtà Dio, in un’estasi mistica che ricorda l’eccessivo cattolicesimo di cui gli anni verdi della Ciccone sono stati conditi dalla madre, estremamente religiosa. La vena funky e gospel, sebbene più declinata nella black-music-like del contemporaneo Michael Jackson, viene ripresa in Express Yourself – che vanta il videoclip più costoso degli anni ’80 –, altra hit da Like a Prayer; stesso vale per Keep it Together in cui Madonna, per la prima volta, si apre e racconta della sua famiglia allargata, e, chiaramente, patriarcale.
Keep it together in the family
They’re a reminder of your history
Brothers and sisters they hold the key
To your heart and your soul
Don’t forget that your family is gold
Sperimentale, dissonante e deliziosamente fuori tempo è poi Love Song, firmata da Prince, all’epoca impegnato in una relazione burrascosa con Madonna, che, a sua volta, era giunta al termine del suo matrimonio quadriennale con Sean Penn: Prince, che nutriva un po’ di ben giustificato rancore verso la star della Warner, quando era “lui a dover fare il lavoro sporco”, interpreta con lei una memorabile ballad funky-jazz, un duetto basato su un efficacissimo songwriting, laddove l’intreccio delle voci di Prince – lui aggressivo e teatrale – e calmo, caldo e di Madonna, del suo timbro, creano un gioco efficacissimo.
L’eccellenza di Like a Prayer risiede però nella capacità narrativa dei suoi brani cardine: Oh Father è una ballad rimasta nella storia, intensa e sentita, un inno degli anni ’80, assieme alla zuccherosa Cherish, in cui Madonna, come già detto, declina ottimamente le sue scarse doti vocali in uno pseudo falsetto precursore dell’impostazione di Britney Spears e delle varie star di Disney Channel. Rimane poi sull’autobiografico Till Death Do us Part, dedicata proprio al quasi ex marito Sean Penn, padre anche della sua bellissima figlia: rapida, ricca di accelerazioni e rallentamenti, ancora pregna dell’influenza di Prince – un saliscendi emotivo, come una relazione come quella della cantautrice e dell’attore, fatta di abusi, violenze fisiche e verbali: turbolento, qualcosa che all’amore è difficile accostare, ma che Madonna tenta ugualmente di far assomigliare. Un ritratto universale di un rapporto viscerale giunto al suo acme e alla sua naturale conclusione.
The bruises they will fade away
You hit so hard with the things you say
I will not stay to watch your hate as it grows
You’re not in love with someone else
You don’t even love yourself
Still I wish you’d ask me not to go
Contraltare alla violenza della vita adulta è la dolcezza del ricordo d’infanzia, sempre più distante e sbiadito, della madre di Madonna, venuta a mancare di cancro quando aveva cinque anni: Promise to Try, dolce ma meno arrabbiata di Oh Father; la tenerezza che assume colori pastello, dediche e promesse, immaginare d’aver avuto più tempo insieme.
Si spazia poi nella politica con Pray for Spanish Eyes: forse uno dei brani più belli e sentiti dell’intera carriera di Madonna, gioca su influenze europee e ispaniche per descrivere il dramma della guerra civile spagnola, un momento storico intriso sia di cristianesimo che di fascismo che di profondo ateismo, i principali temi su cui Like a Prayer riflette, in tutta la sua raffinatezza.
Like a Prayer ha venduto, in totale, quindici milioni di copie, è quasi costato una scomunica a Madonna, ma è stato l’album che le ha permesso di scucirsi di dosso l’etichetta di meteora, e, anzi, di artista destinata a restare.
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