Cos’è che rende bello un album?
Gli amanti del prog dicono sia il bilanciamento fra sofisticatezza e eleganza, quelli del metal parlano di generica “carica emotiva”, ma con un’accezione tutta personale; coloro che ascoltano cantautorato e pop tirano in ballo il rispecchiarsi in un determinato stato d’animo dell’autore, o in situazione più o meno comuni.
E così via.
La bellezza, però, per me, è qualcosa che sconfina molto nel ricordo legato a particolari momenti: un brano in sottofondo, un odore dolce, uno sguardo già visto, un dejà-vu. La bellezza, dunque, è anche intimamente connessa ad un legame, che a sua volta è composto di minuscole scosse elettriche, neurotrasmettitori, neuroni. Un legame che forse esiste solo nella nostra mente.
Ed ecco che dopo anni di silenzio ed album ben poco azzeccati, gli In Flames – band oggetto di ricordi più o meno dolorosi – sono tornati con I, The Mask, uscito per Nuclear Blast. Gli araldi del death symphonic metal, di cui sono i fondatori, sono attualmente composti dai decani Bjorn Gelotte e Anders Fridén, ed ancora orfani del geniale Jesper Stormblad, l’autore di capolavori come A Sense of Purpose o Come Clarity.
Nel 2010, gli In Flames dovettero raccogliere i cocci della dipartita di Stromblad, deciso a combattere la sua dipendenza dall’alcol, e inanellarono una serie poco azzeccata di lavori: Sounds of a Playground Fading del 2011, più patto della depressione caspica, proseguendo con Siren Charms tre anni dopo, in cui la mancanza di Stromblad si fa più pesante che mai, e finendo con Battles in cui, se non fosse per la ballad e singolo Here Until Forever, si sconfinerebbe in un guazzabuglio di vari “-core qualcosa” in cui non si capisce niente. Puntuale, dopo altri tre anni, arriva nel 2019 I, The Mask, e le mie speranze di ritrovare l’emozione trasmessa da brani come The Chosen Pessimist, Trigger, Come Clarity, era ormai del tutto appassita.
Invece, già dal primo ascolto, I, the Mask non si fa apprezzare tanto per il ritorno al passato, eventuali malinconie represse e adolescenziali, ricordi di pianti e farfalle nello stomaco, quanto per un oggettivo, adulto, ottimo songwriting. Tredicesimo album, sfortuna? No, rinascita. Gli In Flames, trapiantitisi negli Stati Uniti, hanno reclutato due nuovi soldati: oltre a Gelotte e Fridèn, Engelin rimane il chitarrista ritmico e i nuovi acquisti sono rappresentati da Bryce Paul e Tanner Wayne rispettivamente a basso e batteria.
Se non fosse stato per gli Infant Annihilator, nel melodic death metal sarebbe stato il vuoto cosmico: finalmente, già dalla opening, Voices, I, The Mask sembra poterlo riempire. Brano in cui Findén trova un giusto equilibrio fra scream e voce pulita, ritrovando una ferocia dimenticata fra sperimentazioni e tentativi sgraziati; il tempo semplice, 4/4, non annoia. Si prosegue con l’altrettanto brutale title track, la cui linea melodica è però da colpo al cuore; stessa descirizone è applicabile a Call My Name, I Am Above e Follow Me, in cui la chitarra ritmica di Engelin compie un ottimo lavoro di abbellimento e coloritura e in cui molteplici linee vocali pulite si incrociano. L’effetto, ammettiamolo, per un purista, risulterà un po’ commercialotto, un po’ bovino, ma estremamente riuscito. La seconda parte di I, The Mask, è inaugurato da (This is our) House, a tinte fosche industrial germaniche e politicizzate, in cui è recuperato il tanto caro dun-dun-dun a là Mastodon: un inno che i fan apprezzeranno (e molto) in live. Fra le gemme dell’album, spicca We Will Remember, che testimonia la nuova maestria raggiunta da Fridén alla voce, sulla quale ha lavorato in particolare nell’espressione e nella teatralità. Altra notevole ballad è In This Life, potenziale ottima soundtrack di un musical post-apocalittico. L’eclettismo della squadra messa su da Frindèn e Gelotte è testimoniata da Deep Inside, in cui riff abissali e infiniti sfiorano l’epòs dei primi lavori della band.
Il tocco divino, se da esso i nuovi In Flames sono mai stati dotati, è raggiunto nell’ending, Stay With Me. il classico riff di chitarra acustica, su cui se ne innesta un’altra – disperata, ma ancora energica – ed un Frindèn al suo massimo da quindici anni a questa parte. Il brano, come i brani da A sense of purpose – tutti azzeccati – è costruita in crescendo, prendendo, finalmente, anche spunto dalle belle vette raggiunte in tal senso dal metal e rock contemporaneo – il post rock inizia a fare scuola. Laddove si sarebbe potuto sconfinare nel melenso, in Stay with Me – brano che, probabilmente, è visto dal punto di vista di un suicida – gli In Flames riescono a dare finalmente, dopo quindici anni dalla dipartia di Jesper, un senso al loro essere.
Oh I, I can see the light
Stay with me
Away from the darkest of nights
Stay with me
La produzione di I, The Mask, affidata a Howard Benson, nominato a ben due Grammy, che già aveva lavorato con In Flames per Battles, raggiunge qui livelli estremamente alti, assieme ad un ottimo mixaggio: ogni suono è limpido, cristallino, caldo e avvolgente laddove necessario. Puntuale la batteria del nuovo acquisto Wayne, mentre, forse, il basso di Paul avrebbe potuto dare maggior supporto ritmico laddove la bellezza, personale o meno, di I, The Mask, sfiorisce: ossia nelle strofe fra i trascinanti chorus. Per quanto ibrido e imperfetto, questo album segna la rinascita di una band che ha fatto scuola e che dimostra di non essere un branco di vecchie cariatidi capellone. In conclusione, per rispondere alla domanda iniziale: l’emozione è ciò che rende bello un album, con tutto ciò che ne consegue.
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