Fernando Pessoa: la solitudine in mezzo alla gente

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Scendere a patti con la vita

Basta una sola vita? Bella domanda. Gli stoici vi diranno che il tempo a nostra disposizione è più che sufficiente; spetta a noi amministrarlo, farne buon uso. Come dargli torto? Ma come biasimare anche chi, amando follemente la vita, vorrebbe giocarsi il jolly, allungarla oltre certi limiti di tempo che, del resto, non ci è dato sapere?

Inutile girarci attorno: quella è e quella resta. Non sappiamo quanto durerà, né sappiamo quando finirà. Sarebbe bello, vero? Anche solo per darsi delle scadenze, delle priorità. Ma forse questa storia del tempo che manca è solo una scusa per dare la colpa a qualcuno, per scaricare le nostre responsabilità su chi, per ovvi motivi, non ha facoltà di rispondere. Quali colpe? Quali responsabilità? Se vi sentite tanto immacolati, allora la cosa non vi riguarda. Ma forse, se ci pensate bene, in questa colpa ci ritroviamo un po’ tutti: quella di non sapere esprimere concretamente ciò che siamo. Da questo deriva una grossa responsabilità: quella di non vivere al massimo grado.

Pessoa e la nascita degli eteronimi

Doveva partire da presupposti simili, anche se mai esplicitamente dichiarati, Fernando Pessoa quando si asserragliò in una moltitudine di vite, che egli stesso chiamò “eteronimi”. Gli eteronimi erano per il poeta portoghese tante personalità autonome che parlavano a proprio nome, pur sfruttando le dita della sua mano. Personaggi immaginari, autori reali, anche se solo sul piano della finzione letteraria. Nacquero Alberto Caeiro, il maestro degli altri, di Pessoa stesso, che si usa definire, con un’altra di quelle parole aliene a chi non ha conosciuto così bene le lingue classiche, “ortonimo”; e, dopo di lui, Ricardo Reis, Álvaro de Campos e molti altri ancora. Circa settanta in   vent’anni di vita. Bel primato, no?

Pessoa è l’esempio lampante di come la vita difficilmente basti a se stessa. Lui, almeno, ebbe bisogno di inventare tanti altri uomini per dar voce alle mille sfaccettature di cui si compone l’animo umano. “Il poeta è un fingitore”, scriveva in Autopsicografia, e, se può arrivare a fingere che sia “[] dolore / il dolore che realmente sente”, come non dissimulare di essere qualcuno di diverso da ciò che realmente si è?

Il difficile mestiere di vivere

Con questi eteronimi Pessoa ci conversava, li presentava alle più importanti riviste dell’epoca e contribuiva a farne un caso letterario. Non sarebbe stato, però, più semplice pubblicare soltanto a suo nome? Non sarebbe stato più facile rincorrere la fama, che certo l’autore non disdegnava, concentrando tutti gli sforzi sulla costruzione del suo personaggio e non di tanti personaggi? I quali, paradossalmente, avrebbero anche potuto soffiargli il favore di un pubblico convinto di trovarsi davvero di fronte a scrittori in carne ed ossa. Pessoa aveva bisogno di vivere, come tutti del resto. Ma, questo vivere, gli risultava maledettamente difficile, quasi fosse l’unico a non aver ricevuto, alla nascita, le istruzioni per l’uso: “Nelle strade ove vanno / gli altri verso una meta, / i passi miei sono per caso: / vado solo e smarrito” (Nelle strade).

Quella volta al bivio: Pessoa ai due capi del mondo

Qualcuno ci potrebbe vedere un uomo frustrato, prigioniero di un fortino di ansie e preoccupazioni. Eppure in Pessoa c’è molto di più. Ci fu un tempo in cui l’autore, ancora ignaro del fatto che sarebbe diventato l’esponente di punta della letteratura portoghese, e sicuramente il più rappresentativo del Novecento fino all’arrivo di José Saramago, ebbe la possibilità di viverla davvero la sua vita, aggiungendoci, per di più, quel pizzico di esotico che, alla fine dell’Ottocento, tanto affascinava .

Orfano di padre, si trasferì al seguito del nuovo marito della madre, console del Portogallo in Sudafrica, nella provincia inglese di Natal. Qui compì i suoi studi, distinguendosi come uno dei migliori allievi delle scuole che frequentava. Adottò l’inglese come sua prima lingua,  e i componimenti d’esordio non potevano essere concepiti che in questo idioma. Le sue capacità lo portarono a guadagnarsi una borsa di studio per iscriversi in una delle più prestigiose università del Regno Unito, ma un cavillo burocratico gli impedì anche solo di partire alla volta della Gran Bretagna. Oxford e Cambridge restarono nomi di città lontane e da quel momento la grande opportunità mancata trasformò Pessoa in un individuo chiuso nel suo piccolo mondo.

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Ritratto di Fernando Pessoa, di Jose de Almada-Negreiros

Tornò in Portogallo, provò a intraprendere gli studi universitari, ma, sospinto da un’inarrestabile voglia di realizzazione, li abbandonò per tentare di mettersi in proprio, impiegando l’eredità della nonna per  avviare una tipografia. Fu un fallimento totale. L’esperimento finì dopo pochi mesi e Pessoa si ritrovò a dover prestare le sue doti linguistiche per tradurre in inglese e francese le lettere commerciali di diverse ditte della capitale.

Fernando Pessoa: la banalità di un modesto impiegato di città

Alla parola “fallimento” se ne potrebbero aggiungere molte altre per descrivere la vita di Pessoa: inquietudine, ansia, incertezza. Tutte adatte a ricomporre un quadro d’insieme del Novecento, un secolo attraversato da profonde trasformazioni sociali fin dai suoi albori, un’epoca lacerata da frequenti attriti tra le nazioni. Un secolo di crisi, insomma. E tanti ne furono i cantori. Antonio Tabucchi, il primo a curare assieme alla moglie Maria José de Lancastre nel 1979 una raccolta di scritti di Pessoa in lingua italiana, così ne parlava nella sua prefazione:

È pur vero, c’è un’epidemia di banalità nella grande letteratura del Novecento: da Musil a Beckett, da Valéry a Svevo e a Montale (leggi “Montale e Kojima: il dissolversi dell’arte nella società liquida”) con la sua vita “al cinque per cento” (l’espressione è di Montale stesso), molti fra i maggiori scrittori del nostro secolo vivono una vita scandita dal metronomo dell’abitudine e del grigiore quotidiano.

[…] viene il sospetto che Pessoa non sia mai esistito, che sia stata l’invenzione di un  certo Fernando Pessoa, un suo omonimo alter ego in quella ridda mozzafiato di personaggi che con Fernando divisero le modeste pensioni lisbonesi dove egli, per trent’anni, condusse il tran-tran della vita più banale, della più anonima, della più esemplare vita di impiegato di concetto. (A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, in F. Pessoa, Una sola moltitudine, volume I, Milano, Adelphi, 1979)

Banalità. A questo non avevamo pensato. Per un’opera superficiale, fragile, inconsistente può capitare che si faccia ricorso a questa parola. Ma per un uomo… Perché, a scanso di equivoci, non è dello scrittore, ma della persona comune, forse fin troppo comune, che sta parlando Tabucchi.

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Statua di Fernando Pessoa presente a Lisbona. Fonte: Turismoletterario.com

Una finestra che dà sulla vita

Pessoa aveva difficoltà a capire i meccanismi di questa grande cosa che chiamiamo “vita”. Ci aveva provato, per carità, anche perché la vita è ineluttabile tanto quanto la morte. Non si sfugge. Però la sentiva come un macigno sulle spalle di un solo uomo. E come un macigno avvertiva tutto ciò che dà un senso alla vita. Non che lo rifiutasse. Semplicemente sentiva il peso della responsabilità.

Perché, per quanto assurdo vi possa sembrare, noi tutti che viviamo siamo stati messi di fronte a una decisione calata dall’alto: vivere. E per quanto diluire questa vita in un lasso di tempo che ha la durata di molti decenni possa far apparire l’impegno più sopportabile, Pessoa sembra volerci dire che non è così. Non per lui, almeno. L’uomo, lasciato da solo a vivere, rischia di fare come quel tizio di Tabaccheria: assistere alle vite degli altri, estraneo a se stesso e agli altri, dall’alto di una finestra che dà sulla strada.

“Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare,
anche se ha ragione”

Moltiplicarsi per sentirsi

Di fronte a tanta rassegnazione non restava che uccidersi, no? Apparentemente Pessoa era uno che aveva rinunciato a vivere. Eppure si sa che morì per una crisi epatica, non certo per suicidio. Beveva e, come si suol dire per chi ha lo stesso vizio, forse lo faceva per affogare i dolori nell’alcol.  Però gli toccò vivere. Ed ecco spuntar fuori in quel marzo del 1914 i primi eteronimi. Lui non lo sapeva, ma la sua vita sarebbe durata ancora vent’anni e queste presenze gliel’avrebbero resa più sostenibile.

“Mi sono moltiplicato per sentirmi,
per sentirmi dovevo sentire tutto”

dirà uno di loro, Álvaro de Campos in Passaggio delle ore.

Ognuno percorre la sua strada. Ognuno arriva dove vuole. Pessoa offrì un’alternativa a tutto questo, un’opzione per chi trova difficoltà a scegliere e vive in un perenne stato di smarrimento. Una soluzione poco eroica, dite voi? No, una soluzione che si adatta benissimo a questo tempo di uomini e non di eroi. Si vive di sensazioni e di aspirazioni. Ecco, in due parole, cosa sono gli eteronimi.

Massimo Vitulano

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