Qual è la valenza artistica e filosofica del Lavoratore nel post covid19? C’è bisogno della sacralità pittorica di Millet o del santo martirio di La classe operaia va in Paradiso?
Ma non siamo tutti dei lavoratori?
Viviamo in un’epoca in cui la precarietà è sempre più tangibile, in cui anche i sentimenti hanno assunto un carattere di provvisorietà. Lo si è quando ci si avventura in una città sconosciuta, in cerca di un posto letto e trovare una stanza ma senza contratto, lo si è quando si è studenti di università prestigiose ma la sera si fa la cameriera o il rider per arrotondare; si è precari persino con il nostro compagno in un momento di crisi, ma precari sono anche i rappresentanti dei partiti che giocano ancora a fare del trasformismo un’arte.
Precarietà: ma partiamo dal termine per decostruire un concetto. Il precario è colui che non ha certezza; nel dizionario Treccani alla voce precariato si ritrovano solo parole di incertezza, instabilità, insicurezza.
Il corpo del lavoratore diviene quindi merce del padrone. Lo stesso padrone, con questa azione ha contribuito a limitare la libertà del lavoratore, ma peggio ancora si inserisce in quella che è la sfera dell’immaginario del soggetto. Come Lulù, protagonista de La classe operaia va in paradiso. E cos’è che aiuta il povero Lulù a prendere coscienza? È l’incidente sul lavoro, è lo studente di troppi anni fuori corso, ma anche la sua coscienza, il suo pensiero: quest’ultimo, fuori corso, non sarà mai.
Il corpo diviene quindi mero sostituto della macchina, emulando al contempo gli stessi meccanismi della stessa, annullandosi.
Che senso ha quindi resistere? A questo non è possibile fornire una risposta semplice. Colui che lotta non è mai solo, anche se lontano nello spazio e nel tempo, ha sempre un compagno al suo fianco e quindi quello spirito ribelle che ha messo in atto rivoluzioni fondamentali come l’illuminismo, è sempre presente. Di conseguenza, ha senso resistere per un disegno più grande per quello che i filosofi greci chiamavano BENE (buono).
La Kalokagatia è una dottrina platonica secondo la quale il bello e il buono non possono che coincidere: quindi ciò che è bello, non può che essere buono, e ciò che è buono è necessariamente bello.
In questa riflessione, si cerca di fornire un fondamento filosofico e quindi razionale, argomentativo e in questo senso scientifico, in una società invece fondata sull’apparenza sul bello estetico.
Il piatto bello è anche buono, il vestito griffato è bello e quindi anche buono: il tutto si trova legato ad una dicotomia estetico-materiale, che perde di vista uno degli elementi che differenzia l’essere umano dall’animale, l’intelletto. Si dimentica di dar nutrimento alla mente, o peggio ancora, si pensa di dargliene senza però VEDERE le contraddizioni che distinguono società postmoderna.
La nostra mente quando salda i suoi sguardi su ciò che è illuminato dalla verità, comprende, conosce e possiede immediatamente intelligenza. Ma quando si rivolge in ciò che è pieno d’ombra, sull’effimero, sull’evanescente, su ciò che nasce e muore, l’individuo vede oscuro, tira a indovinare e somiglia a chi non ha intelligenza.
L’uomo è quindi essere dotato di intelletto prima che lavoratore e alcuni artisti come Van Gogh e Millet hanno cercato di rendere omaggio a questa condizione.
L’operazione dell’artista olandese non è semplicemente un esercizio pittorico, Van Gogh riprende l’idea di lavoratore e la muta in una icona che tende al trascendente dandogli quella dignità che il sistema cerca repentinamente di togliergli.
In Millet non si ha questa dimensione religiosa, Van Gogh vede il lavoratore come un angelo e con la sua pennellata vibrante trasmette la beltà di queste figure in senso ampio. Sceglie di rappresentare, le persone e i luoghi comuni, non solo per necessità e brama di dipingere, ma soprattutto per elevarli. In questa ottica i mangiatori di patate di Vincent sono paragonabili all’Ultima Cena di Leonardo o alle fotografie degli anni ‘30 di Charles Clyde Ebbets o ancora a Chaplin e i suoi Tempi Moderni.
Tutte queste operazioni non servivano forse a restituire quella dignità di cui avevano una forte necessità i lavoratori? Fino a quel momento dimenticati, sfruttati, e dove sono ora questi lavoratori? Sono ancora tra noi tutti noi lo siamo, dall’infermiere al cassiere questa crisi sanitaria ci ha mostrato più che mai che non esistono differenze sociali, o meglio esistono, ma non dovrebbero.
Il virus è democratico, non guarda in faccia a nessuno può colpire una anziana di centoquattro anni e farla passare indenne e invece e un bambino di dodici che perde la vita. Tuttavia, certo è che il “ricco” avrà più risorse rispetto all’individuo con il salario basso.
Si sente, dunque, la necessità di un’Arte collettiva, inclusiva, non divisiva, non che elevi a sacra la sofferenza del lavoratore dei campi, dell’umile, ma che le doni dignità al pari di ogni altro impiego; non è il tempo della rivincita dalla mortificazione; necessario è un ribaltamento dell’approccio. Da svilente a normale, degno: senza compiere alcuno sforzo intellettuale per giustificare, filosoficamente, ciò che l’elité e il privilegiato – nella concezione storicistica del termine – hanno guardato per epoche con disprezzo misto a compassione. Perché siamo tutti, in qualche modo, lavoratori.
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