Vedi Niccolò, la gente non è il mestiere che fa,
O i vestiti che porta, le scarpe che mette, la roba che ha.
E per questo non mi riconosco in questa società
Per me contano i dischi, i bagni nel mare, l’umanità.
In principio furono due canzoni scritte in una cameretta di Roma, caricate senza pretese su SoundCloud. I pariolini di 18 anni e Wes Anderson. Due brani che già contenevano in nuce quello che rese Il sorprendente album d’esordio de I Cani di Niccolò Contessa uno spartiacque nell’allora piccolo mondo della musica indie italiana.
Si parla del 2011 e ancora utilizzare il termine indie significava inquadrare una comunità che stava ai margini, pronta però, come ha dimostrato l’esordio de I cani, ad esplodere. Poco prima c’era stato un altro cantautore che aveva indicato la via, Vasco Brondi con le sue Luci della Centrale elettrica, non a caso citato anche da Contessa in una sua canzone come “personaggio” di una nuova leva cantautoriale italiana pronta a rivoltare l’immaginario di una generazione carica di velleità.
È dunque doppia l’influenza che un album del genere ha avuto, prima di tutto ha fatto in modo che tutta una serie di produttori, partendo dal fido Andrea Suriani con il quale Contessa ha forgiato il sound in studio e live de I Cani, facessero virare la musica indie in un grande calderone fatto di sintetizzatori che si sarebbero andati a prendere i primi posti delle classifiche di ascolto. Da lì le visualizzazioni su Youtube e gli streaming su spotify e deezer avrebbero avuto sempre più peso, partendo da Last.fm fino ad arrivare ai giorni nostri la musica di Niccolò Contessa dimostrò ai suoi contemporanei e alle generazioni successive che la democrazia musicale poteva ribaltare il tavolo, fino ad arrivare al suo eccesso in cui spesso non c’è alcuna mediazione tra la bolla sociale ela dimensione live (vale la pena ricordare il caso Cambogia).
Contessa ebbe il merito, fina dal titolo del suo album d’esordio, di squarciare quel velo di Maya che avvolgeva i sogni e le illusioni di tanti giovani, vestendo le sue storie di una forma elettro pop che avrebbe negli anni a venire generato una miriade di epigoni più o meno riconsciuti.
L’altra strada su cui I Cani hanno fatto da apripista è stata quella del racconto di una generazione che mentre si autocelebrava sui social costruendo immagini di sé smussate, fotogeniche e sedicenti originali, accumulava nella propria soffitta disillusioni, lavori malpagati, lauree inutilizzate e relazioni precarie come i propri lavori. Contessa ha raccontato questo in modo cinico e asciutto e lo ha fatto prima di tutti. Ha raccontato a sé stessa una generazione che aveva in qualche modo difficoltà ad ammettere che le velleità, anche se disattese, ti fanno andare avanti e che i fallimenti forse sono il vero trait d’union degli anni zero, anche se a ben guardare anche per chi li ha preceduti non faceva tanta differenza.
Quello de I Cani sarebbe stato un percorso in qualche modo solitario e coerente, di crescita nei testi come nella musica e nella vita, di debolezze, solitudini e osservazione puntuale del mondo circostante. Contessa dopo tre album avrebbe cominciato un lavoro di semina diverso, producendo artisti come Calcutta e Coez , collaborando con artisti del pop come Max Pezzali e scrivendo varie colonne sonore per il cinema italiano. Il primo video caricato da I Cani al momento ha un milione di visualizzazioni, quello di Faccio Un Casino di Coez, album della svolta del rapper romano prodotto da Contessa ne ha 36 milioni, è tutta qui la strada che dall’album d’esordi de I Cani a mio parere si è percorso con la musica di Niccolò Contessa, non a caso la presentazione del suo album d’esordio avvenne al Circolo degli artisti e quella di Aurora all’Atlantico di Roma, a testimonianza che i millennials erano pronti a spazzare via in poco tempo i resti del secolo scorso.
Il sorprendente album d’esordio de I Cani, è diventato un piccolo grande album di culto che alcuni hanno solo sfiorato, e che in molti hanno preso in pieno petto. Un disco che ha saputo però prendere per mano chi c’era prima e avvicinare chi è venuto dopo mettendo quelle persone nella stessa stanza dove ognuno ha preso quello di cui aveva bisogno per comprendere chi non gli era contemporaneo.
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