Eh, la scuola. Non è facile riunire in poche righe l’infinito campionario di sensazioni e sentimenti contrastanti che emergono proprio fra i banchi di scuola. Del tutto inutile, anche per i più ostili, non sarà stata, se pensate che anche solo la possibilità di leggere quest’articolo la dovete a lei.
Qualcosa ha lasciato in ognuno, nel bene o nel male. Ci mancherebbe. Per uno che ci entra alla tenera età di 6 anni e ne esce a 19, non può certo passare inosservata.
E come poteva un mondo tanto celebrato, detestato, sopportato o rimpianto non continuare a vivere nei versi dei nostri cantanti? Molte canzoni sembrano gradire gli stimoli di questa musa. A volte per fare di una fanciulla una creatura mostruosa.
La più grande chiave di lettura per la relazione fra scuola e musica sta nel rapporto professore/studente. Se ci pensate bene è proprio lui, o lei, ad occupare un posto di rilievo quando ci riferiamo a quell’ambiente. La spiegazione è semplice: quanti altri adulti, estranei al nucleo familiare, conoscete che abbiano un rapporto diretto e quotidiano con i ragazzi? Pochi, a dire il vero. Ed è quindi del tutto naturale che nel professore si possa vedere una figura di adulto alternativo, cui fare riferimento riconoscendogli il ruolo di guida. O una spina nel fianco che non capisce niente del mondo, che crede di sapere tutto e, in fondo, non ci azzecca più di tanto.
Prendiamo Io sono Francesco, il singolo di esordio di Francesco Tricarico (2000). È una mattina, le solite quattro mura. La maestra annuncia un tema sul papà. E il nostro piccoletto, Francesco, si alza pensando a uno scherzo e, sorridente, le dice che lui non si ricorda, perché il padre è morto presto. A questo punto cosa avrebbe dovuto fare una maestra un poco sensibile? Proporre un’altra traccia, magari. E invece…
Lei sai cosa mi dice? Neanche mi guardava.
Beveva il cappuccino, non so con chi parlava.
Dice: “Qualche cosa, qualcosa ti avran detto.
Ora vai a posto e lo fai come tutti gli altri”
Si capisce che, una volta cresciuto, l’allievo possa voler tornare dal maestro. Ma non per ringraziarlo. E se questo non avviene, è solo perché quel po’ di maturità che un tempo gli mancava, oggi gli dice che non ne vale la pena. Però, quanto sarebbe bello parlarci a quattr’occhi, metterlo in imbarazzo di fronte alle assurdità che per ore e ore andava dicendo.
Perché i professori hanno questa abitudine: vogliono insegnarti la materia e pure come si sta al mondo. Ma i princìpi, quelli no, non li puoi trasmettere come le leggi della termodinamica o le guerre puniche. Se tu per primo non li rispetti, diventi una persona poco credibile.
Il sassolino dalla scarpa se lo toglie Luigi Tenco quando nel 1962, in Cara maestra, rimprovera le istituzioni come la scuola, la chiesa e la pubblica amministrazione, rappresentate da una maestra, un curato e un sindaco, di essere vergognosamente incoerenti.
Cara maestra, un giorno m’insegnavi
che a questo mondo noi, noi siamo tutti uguali;
ma quando entrava in classe il Direttore
tu ci facevi alzare tutti in piedi,
e quando entrava in classe il bidello
ci permettevi di restar seduti…
E quasi cinquant’anni dopo, nel 2009, sono altri due artisti a tornare sull’argomento con toni non altrettanto concilianti. Renato Zero non userà espressioni forti in Professore, ma l’affondo è comunque doloroso per il moralista di turno. Il professore in questione si appella alle virtù auree del rigore e della serietà, ma, tutto sommato, quanta felicità può trarre il suo cuore da un’arida conoscenza? La cultura non è tutto o, almeno, non basta a spiegare tutto. A quell’età un ragazzo ha bisogno anche di altre risposte che gli dicano perché gli uomini si comportano in un certo modo, perché anche l’impresa più piccola può diventare la più difficile. La paura. La paura di non farcela, di non sapere come andare avanti o di crollare di fronte alle avversità. “Lo devi ammettere – sentiamo alla fine della canzone – fuori dal libro è molto dura”.
Marco Masini, lo sappiamo, non usa mezzi termini. Quel che deve dire lo dice e non gli importa molto di un linguaggio edulcorato. E in No professore non fa eccezione. Ad essere sotto attacco è l’educazione, quell’educazione che ogni buon insegnante vende come il segreto per aver successo nella vita. Ma a cosa serve, si domanda il cantante,
“Se domani tanto non mi basterà / per portare con orgoglio questo nome / oltre la stazione della mia maturità”.
La precarietà è il vero problema, ci ricorda Masini. E per un giovane a cui viene detto di cercare la propria identità – e quindi di rimbalzare da un porto all’altro alla ricerca della giusta meta – proprio questa parola sa di sberleffo, di amara condanna a un destino segnato. Precarietà.
Ma la scuola non deve essere per forza contrasto, qualcosa di più dolce può sciogliere l’attrito. Dolce come l’amore. E se parliamo di questo, in scuola e musica, delle cotte pazzesche fra coetanei o, per giunta tra compagni di classe, vengono in mente canzoni più o meno recenti. Dalla “classe II^ B” di Mario Tessuto in Lisa dagli occhi blu (1969) ai tanti riferimenti contenuti ne La solitudine (1993) di Laura Pausini. E l’amore, qui, gioca davvero brutti scherzi. Perfino il treno, quel famoso treno delle 7:30 su cui ci sembra di viaggiare con la protagonista, è “un cuore di metallo senza l’anima”. Perché, a ricordare che quell’amore nato tra i banchi si trova da qualche parte lì nel mondo, non resta che una fotografia, stretta forte al cuore “fra i compiti d’inglese e di matematica”.
Di quegli anni si possono conservare bei ricordi e farne una sorta di paradiso in terra dove tutto andava meglio. In queste circostanze, anche una professoressa può perdere, col tempo, il velo di severità e diventare un’ottima confidente. Ne è la prova Cara prof di Eros Ramazzotti (1990). In un’immaginaria lettera indirizzata alla professoressa, l’alunno, ormai cresciuto, fa una carrellata di alcuni compagni, parlando di chi era il più bravo della classe ed è finito a fare il venditore porta a porta; o di Lucia, quella dell’ultima fila, che non capiva granché di matematica, ma si emozionava di fronte a “morbide nevicate di poesia”.
Gli anni della scuola erano, almeno un tempo, gli anni dell’impegno politico. Quando essere giovani voleva dire lottare per costruire un mondo diverso, se non addirittura migliore:
E le assemblee, i cineforum e i dibattiti mai concessi allora
E le fughe vigliacche, davanti al cancello
E alle botte nel cortile e nel corridoio
Primi vagiti di un ’68 ancora lungo da venire
e troppo breve da dimenticare
Qualcuno rimpiange ancora questi versi di Compagno di scuola (1985) di Antonello Venditti? Ci sta che siate dei nostalgici, inguaribili nostalgici. Ma non vi preoccupate, è del tutto naturale. La scuola appartiene a una fase stupenda della vita e forse le dovremmo anche attribuire dei meriti. Perciò lasciatevi andare senza vergogna sul fiume dei ricordi e fate di tutto perché un giorno possiate avere qualcosa da ricordare. È un tempo che passa, ma che da qualche parte rimane. Buon rientro a tutti.
Massimo Vitulano
Foto di copertina By Lyn Alweis/The Denver Post via Getty Images
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