Sapete cosa significa Laibach? Il compositore austriaco non c’entra, ma il tedesco, come lingua, di per sé, sì. Laibach è infatti il nome tedesco di Lubiana (Ljubljana in sloveno), la capitale della Slovenia. Un paese piccolo, piccolissimo, con la stessa superficie della Lombardia e meno di metà degli abitanti. Una lingua divisa in moltissimi dialetti, tanto che si dice che lo sloveno sia una lingua sostanzialmente artificiale e artificiosa, non esistente nella realtà. Lingua slava, con alcune parole prese in prestito dalle lingue forse ben piu’ semplici dei paesi confinanti: italiano, tedesco, ungherese. La somiglianza con il serbo-croato è ben piu’ alta che fra italiano e spagnolo, e perfettamente mutualmente intellegibile.
La Slovenia, nonostante la piccola estensione territoriale e l’ancor piu’ ristretta popolazione, sparsa sulle sue colline boscose e sulle sue montagne, ha consegnato anche lei qualcosa di importante al mondo. L’ultima guerra “riconosciuta” di liberazione in Unione Europea, la Guerra dei Dieci Giorni del 1992; importanti milestone nel campo della chimica e meccanica dei materiali; il rapporto piu’ alto fra popolazione e medaglie olimpiche; fra le altre cose. In questo pool di altre cose possiamo annoverare anche una band geniale e dalla carriera lunghissima, folkloristica, colorita, un unicum al mondo: i Laibach.
Tornando a parlare di musica, i Laibach nascono dunque a Trbovlje nel lontano 1980. La cittadina non è lontana dal confine austriaco, e in questa regione della Slovenia è comune parlare anche tedesco. In generale, l’abilità nell’inglese, nel piccolo stato, era altissima già all’epoca di Tito e durante l’appartenenza alla Jugoslavia; comune è trovare anche bambini di dieci anni che parlano tre o piu’ lingue. È in un ambiente d’alto livello culturale che il cantante e fondatore Dejan Knez è cresciuto: il padre è uno stimato pittore contemporaneo, Janez Knez, che invitò presto Dejan a perseguire nei propri interessi artistici.
L’arte e il concept dietro ai Laibach: cosa c’è di unico in questa band
Va chiarita la storia della Slovenia stessa, innanzitutto, per comprendere quella dei Laibach. Tale nazione è stata da sempre sotto il predominio di potenze confinanti: talvolta l’Austria (per qualcosa come otto secoli), talvolta l’Italia, i Nazisti, e, infine, la Serbia. Imperialismo altrui e spadroneggiamento su un territorio già di per sé difficile, montuoso e collinare, composto di minuscole valli isolate le une dalle altre incapaci di far massa critica. Abbastanza naturale è dunque venuta la critica alla base della Neue Slowenische Kunst, movimento artistico nel paese nel 1984 durante il dominio Jugoslavo (e cui molto merito va ai componenti della band stessi); va peraltro aggiunto che la Slovenia era di gran lunga il paese con l’economia piu’ stabile e florida degli stati della federazione. E, dunque, quello che godeva di una posizione privilegiata e di una maggior libertà d’opinione sotto la federazione.
I Laibach, dunque, abbracciarono questa filosofia dell’esser terra di confine: la NSK iniziò a stampare passaporti falsi a proprio nome – uno stato nello stato – e la band si configurò con un suono martial industrial che era unico all’epoca. Scelsero come vessillo una croce blasfema: nera, ruvida, tridimensionale. I cavalieri templari della reconquista. Attualmente, il panorama del genere è estremamente ricco, prettamente mitteleuropeo – da Rome ai Triarii – ma nel lontano 1983, anno d’uscita di Through The Occupied Netherlands, il sound dei Laibach era unico. L’album, in gran parte dimenticato e recuperabile solo in registrazioni di bassissima qualità su Youtube, è letteralmente un’enumerazione dei vari occupanti della Slovenia, con brani cantati nelle rispettive lingue: tedesco, italiano, serbo-croato. Il tour di promozione dell’album – i Laibach erano già noti e amati/detestati nella Slovenia centrale – fu sensazionale: bombe a mano invece di ghiaccio secco sul palco, strumenti improvvisati da found music, cavi elettrici per creare distorsioni, documentari provocatori riguardo la Jugoslavia. Attorno alla band si venne a creare un coacervo di ispirazioni artistiche, gruppi teatrali, registi sperimentali, architetti, filosofi, professori d’Università. Retrospettivamente, si può affermare (qui e qui i paper) l’enorme influenza provocatoria e distruttiva – sardonica, satirica, irritante, complessa, furiosa ma efficacissima – dei Laibach abbia contribuito all’uprising della Slovenia nel 1991, culminato nella guerra dei Dieci Giorni e l’indipendenza dalla Jugoslavia.
Quanto c’è di reazionario, onestamente tale, e quanto di provocatorio, nei Laibach? Quanto è affettuoso il reale abbraccio verso il totalitarismo che portano avanti da quasi quarant’anni nei loro costumi, e quanto è satira? Quanto è costume, quanto è reale? Il profondo e complesso concept alla base dei Laibach è imperscrutabile, e sicuramente ha contribuito, nella genialità dei suoi fondatori, a farne una band di culto a distanza di tanti, tanti anni. I Laibach sono attori, interpreti del totalitarismo in ogni sua sfaccettatura: che sia integralista cattolico, che sia fascista, che sia comunista. Che sia militarista, che sia di falsa pace. Che sia alieno, che sia terreno. Che tratti di UFO nazisti come in Under the Iron Sky, o del piu’ reale e tremebondo regime nordcoreano.
Cosa faranno i Laibach quando la trasformazione in regime autoritario della Slovenia, ora guidata dal militarista e salvatore della patria Janez Jansa, sarà completa? Da che lato si schiereranno?
Opus Dei e The Sound of Music: 1987 vs 2018
L’album piu’ ricordato e noto dei Laibach è Opus Dei, l’opera di Dio. La title track è una cover di Life is Life degli Opus, brano poppeggiante e funky. L’opera di Dio, in territorio sloveno, è rintracciabile con estrema facilità fra le sue montagne, le sue valli verdeggianti: così, tamburi marziali sostituiscono i beat, e la voce strozzata di Milan Fras (immortale) si dispiega fra le valli alla base del Triglav (il monte Tricorno, in italiano), la montagna piu’ alta della Slovenia. Donne a seno scoperto, madri della patria, lanciano dardi contro i nemici; alci e cervi d’altura accompagnano la band nel suo viaggio alla scoperta del regno di Dio.
Opus Dei è il primo album tecnicamente pregevole dei Laibach, che d’ora in poi comporranno e rilasceranno esclusivamente album eccezionali nell’estetica e nella produzione. Il missaggio di Opus Dei – i cui realizzatori si perdono nelle nebbie del tempo – è rustico, ma permette di ben discernere il carattere concettuale dell’LP. I Laibach abbracciano l’occidente, con le nostre delicatessen e i nostri vinili sguiscianti sulle puntine. A testimonianza di ciò, altra cover della band piu’ occidentale del tempo è presente in Opus Dei: One Vision dei Queen, che diviene una ritmica e minacciosa marcia attraverso piazze, strade, e centri commerciali – con quell’abbigliamento a metà fra i fedayyin, giannizzeri, e soldati nazisti. Da inno all’unità d’intenti di un gruppo d’amici, One Vision diviene quello di un nuovo regime fittizio, il cui manifesto non è ben chiaro, ma è forse un wok con salsa di soia di ottima qualità di tutto ciò che l’Europa, prima d’esser unita, ha passato. One Vision diviene Geburt einer Nation (nascita d’una nazione), il che fa molto riflettere – a posteriori – su quanto l’opinione pubblica slovena sia stata fortemente plasmata dall’insistenza dei Laibach su questo concetto: abbiamo già lo Sloveno, ora facciamo gli Sloveni. La controversia dunque si fa finzione, e, infine, si concretizza in una rivolta.
Altro eccezionale brano da Opus Dei è F.I.A.T. : un lugubre corno e tamburi distanti aprono il brano non di certo dedicato alla casa automobilistica italiana – chissà se, in quei tempi lontani, i Laibach guardavano a noi, dall’altro lato del confine, nelle nostre confortevoli case e liberi di ascoltare la peggior robaccia che ci veniva propinata dalle case discografiche dell’epoca, Claudio Villa e i Pooh, con invidia – ma che è un’isterica e nervosa riflessione sugli orrori tutti della guerra.
You are in black darkness and confusion
You have been hugger, muggered and carom-shotted into a war, and you know nothing about it.
You know nothing about the forces that caused it,
or you know next to nothing.
You are not to win this war.
Yon cannot win this war.
L’orrore di How The West Was Won fa da contraltare all’epicità di The Great Seal: tamburi da battaglia e, sebbene in 4/4, il potere di un inno nazionale. E così sarà: la NSK utilizzerà The Great Seal come tema per ogni proprio evento. Una piccola gemma d’arte contemporanea che non dovrebbe venir dimenticata.
Per chi non lo sapesse, The Sound of Music è il nome originale di Tutti Insieme Appassionatamente. Evidentemente, ai traduttori, chiamare semplicemente un musical “Il suono della Musica” non sembrava un’operazione commercialmente appetibile. Decenni dopo, nel 2018, i Laibach, fortemente rimaneggiati nella struttura ma non nel concept (Knez lasciò infatti la band dopo l’album WAT, nel 2003), hanno deciso di farne un remake. Si pensi che l’unica band occidentale che abbia mai suonato in Nord Corea, da che è subentrato il regime totalitario, è rappresentata poi dai Laibach.
La voce di Milan Fras si è fatta piu’ fragile nel tempo, declama con minore energia i suoi sussurranti e gutturali proclama politici; a rafforzare la formazione, ci sono questa volta Boris Benko e Primož Hladnik dei Silence, altra band dalla dolce Slovenia. Una folle commistione del musical di Richard Rodgers e brani folk nordcoreani: The Sound of Music, ambientato originariamente in Austria nel 1938, anno dell’invasione da parte della Germania nazista per conquistare quel tanto agognato spazio vitale, e che segue le avventure della famiglia Trapp. Laddove Julie Andrews cinguettava delicata e deliziosa in Climb Every Mountain, qui troviamo i freddi, algidi, distanti mormorii di Benko. Un’aura minacciosa è presente in tutto l’album, una cappa d’angoscia che si leva dai cori infantili So Long, Farewell, e nell’amore reso malefico di Maria/Korea. La dolcezza di Do-Re-Mi diviene epica ed intimidatoria nella voce di Marina Martensson e nelle distorsioni Kraftwerk-like successive. Il sound si fa piu’ dark pop, quasi dance, quasi art pop, piu’ vicino alle rarefazioni di Bryan Eno. Airirang, brano tradizionale coreano, è inserito nell’album, ed interpretato prima in chiave neoclassica dai Laibach e poi col tradizionale gayageum.
We’ll go in springtime, we’ll go in winter too
We’ll go in our dreams, we’ll go at any time
We’ll go for a lifetime, we’ll continue going through generations
To Mount Paektu, the home of my heart
The Sound of Music è forse il lavoro piu’ geniale dei Laibach. Al suo interno, le allegorie politiche, scatole cinesi e matrioske, il tecnocapitalismo americano, con le baby cheerleader di The Lonely Goatherd contro le adoranti coreane del videoclip della title track, si contrappone all’autoritarismo nordcoreano – e sono così distanti, ci fanno domandare i Laibach? –, mescolandolo con ricordi ormai distantissimi nel tempo dell’Anschluss austriaco (altro dominatore della Slovenia, dominato, stavolta, dal supervillain d’Europa) e scegliendo da tale musical i brani piu’ cheesy, mielosi, e naif della raccolta, trasformandoli in inni politici autoritari, araldi di orde nere – crocedotate, come i Laibach –atte a minacciare la libertà personale e a bruciare tutto ciò che è Occidentale, come avviene in Nord Corea. La traccia finale dell’album è il discorso che il Chairman della Commissione della Cultura Nordcoreana diede, tutt’altro che di benvenuto, di fronte alla richiesta della band di suonare nello stato.
L’eredità dei Laibach
Poche band sono state influenti come i Laibach nella storia, senza che il grande pubblico lo sapesse. Ci si riempie la bocca di Winds of Change degli Scorpions, ma non dell’effetto domino causato dalla NSK in ex-Jugoslavia. Uno dei filosofi moderni piu’ apprezzati a livello mondiale, Slavoj Zizek, scrisse di loro parole di lode. I Laibach sono l’estremizzazione dell’identificazione con qualcosa esterno dall’umano – la sovrastruttura esterna, politica, ideologica – che rende, dunque, impalpabile l’essenza personale. La disintegrazione dell’ego in quanto sovridentificazione con qualcos’altro. La sottomissione a qualcosa che non è né bene né male in senso assoluto: è, solamente, niente. Il nulla. Un mucchio di vestiti scomodi e inni vuoti. I nordcoreani, che non sono autorizzati ad ascoltare il suono della musica, della nostra musica occidentale, ne hanno potuto godere proprio grazie all’incapacità dei loro capi di gestire, comprendere, ed abbracciare l’ironia: la sconfinata ironia che rende possibile la sopravvivenza dell’individuo in un mondo soverchiante, che cerca di farlo scomparire in un mare di falsa uguaglianza.
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