Rome è un progetto neo-folk del lussemburghese Jerome Reuter, musicista che, prima di tutto, si è sempre definito europeo. E canta della storia, dei valori, della decadenza e dell’ascesa, del nostro continente.
In questo triste anno, il mesto 2020, l’ultima beffa alla libertà, alla democrazia, alla comunione, e, in ultima analisi, alla sostenibilità della vita umana sul pianeta Terra, è avvenuta oggi. Mentre sto scrivendo, infatti, durante l’ennesima quarantena preventiva di quest’anno – stavolta, però, in un altro stato dell’Unione europea, in USA si contano i voti, tramite il secolare, incancrenito, vecchio, antidemocratico sistema dei grandi elettori – e gli USA, gli sterminati USA, grandi pianure e città dove chiunque può reinventarsi, un luogo atlantideo al quale per un secolo abbiamo guardato con trepida ammirazione, con cupidigia, con invidia – ecco, quello stato, ora, è sull’orlo del baratro, con più di 230,000 morti di Covid19.
Gli USA sono morti. New York è morta per sempre, scrisse in agosto il New York Post (qui). E, come italiana, come europea, ringrazio ogni giorno di svegliarmi nella fu CEE, nella ora Unione Europea, che, in tempi comuni, mi permetterebbe di vivere come un cittadino di un intero continente, non di un solo stato. Che mi permette di divorziare, di sposare chi voglio indipendentemente dal sesso, di morire con dignità, di non mettere al mondo una vita non voluta, di ricevere lo stesso salario di un uomo, di vivere il sesso esattamente come decido io. Cosa che, una ragazza dell’Alabama, una Giulia anche lei 27 enne, non può fare. Non può fare più.
We used to love America, dice Jerome Reuter, lussemburghese di nascita, in West Knows Best. Reuter, uno dei più geniali e sconosciuti compositori, poeti, artisti questo secolo abbia mai prodotto. Suo è il progetto di lunga data intitolato Rome: perché Roma, con il plurisecolare impero, ha forgiato, sulla base differenziale di infinite culture, barbare, celtiche, indoeuropee, tirreniche, slave, un sentire comune, una legislazione comune – cui, già, il Regno Unito si distanzia. Per Jerome, come afferma continuamente nelle sue interviste, l’Europa continentale è un unico stato diviso da varie lingue: che condivide una storia fortemente interconnessa, di inimitabile ricchezza, un’umanità forgiata nel fuoco, nel sangue, nelle foreste boreali abbattute per dare origine a flotte, ad accampamenti, da bruciare per riscaldarsi nel gelo delle piccole ere glaciali; una civiltà che ha eretto cattedrali, ponti, che ha unito Mediterraneo ed Atlantico. Di questo canta Rome, della sua amata Germania, della sua amata Italia, della sua dolcissima Europa.
Ecco: Jerome Reuter di Rome è una singolarità musicale per eccellenza. Quella di cui abbiamo bisogno ora.
La musica di Rome si è sempre caratterizzata come Neofolk, precisamente nella declinazione tedesca, connotata da tinte politiche sia destrorse che sinistrose, della martial industrial. Il musicista fa uso di scarsissime strumentazioni sintetiche, prediligendo un approccio analogico a sia composizione che registrazione, affidandosi a musicisti locali e suonando la maggior parte degli strumenti autonomamente. Si tratta di un artista incredibilmente prolifico, più di tredici album in quindici anni; sin dagli esordi, per arrivare al recentissimo The Lone Furrow, uscito in agosto, pur sperimentando ispirazioni più nettamente elettroniche e moderne, ha spesso recuperato e rielaborato quanto già espresso nei primissimi tre album, Nera, Confessions d’un voleur d’ames, e Masse Mensch Material. Punto particolarmente alto degli esordi della carriera agli esordi di Rome fu Flowers from Exile: un intensissimo racconto della Guerra Civile Spagnola, un degno contraltare musicale di Terra e Libertà di Ken Loach – in esso, con voce scura, sempre sorretta da una chitarra acustica malinconica, Reuter canta di lutti e di violini che non cantano più, come nel singolo To Die Among Strangers, una perla rara in un mare di ostriche lucenti. Nel suo solenne cantare dei fatti, nel suo narrare storie vive, reali, intense, Reuter è profondamente europeo: il messaggio è intrinseco nel significante, non deve essere spiegato, spiattellato, quasi banalizzato, come in Bob Dylan. Perché, in quasi tutta la sua discografia, e nel successivo (2014) A Passage to Rhodesia, dedicato alla guerra civile sudafricana (solo una, delle tante guerre dimenticate), Reuter parla di divisione per esprimere la potenza dell’Unione; parla di lotta per lasciar che sia la tolleranza a cantare ; inserisce il rumore, le percussioni, la found music, inserisce Leonard Cohen e Bryan Eno nei suoi brani perché sia la chitarra, strumento tradizionale per eccellenza, a prevalere. Ordine, eleganza, delicatezza, nel caos di strilloni e populisti.
La musica, la poesia di Rome non è di facile comprensione. È infarcita di rimandi a tematiche filosofiche – strettamente europee, al massimo africane – marcatamente novecentesche, romantiche o illuministe: The Hyperion Machine, album del 2016, è interamente basato, già dalla iniziale Celine in Jerusalem, su Iperione di Holderlin, romanzo epistolare (per capirci, come Le ultime lettere di Jacopo Ortis) settecentesco, e intrinsecamente europeo, con continui viaggi fisici e mentali fra Germania e Grecia. Infatti, la struttura complessa e circolare del romanzo conferisce ad esso, e all’omonimo album di Rome, un sentore di allucinazione – la febbre romantica, pazzia esistenziale, che colpisce gli eroi dei romanzi ottocenteschi, russi, tedeschi, greci, italiani, francesi, spagnoli. Ciò che diverrà spleen. Morboso, ricco, esasperato. Nota di colore: Reuter non si è mai sottratto a collaborazioni con altri artisti europei, e in The Hyperion Machine (che è, a parer mio, uno dei più bei lavori a livello mondiale del 2016) ospita il misconosciuto cantore svedese Joakim Thatstrom: uno che è involontario artefice del successo planetario dei Ghost di Tobias Forge, in quanto quest’ultimo allo stile orecchiabile e hard rock dei suoi Imperiet si è ispirato (ascoltate Synd, album del 1986: sarà la cosa più epica di oggi.) Hall of Thatch seguì rapidamente nel 2017, continuando la stagione esplorativa di Reuter.
È, però, con Le Ceneri di Heliodoro che la carriera di Rome ha raggiunto l’apice compositivo: abbandonando la forma di concept album, e le sperimentazioni elettroniche, Reuter ha semplicemente portato in musica dodici ottimi brani, tutti uniti dal filo rosso del narrare storie profondamente europee. L’album, concepito quasi tutto in Italia, tratta, infatti, della nostra storia recente e passata: da Uropia o Morte (una elegantissima crasi di Europa + Utopia), che, addirittura, cita Gabriele D’annunzio durante l’impresa di Fiume
You said we didn’t bleed enough
Are we bleeding enough for you now?
Iniziando, però, da Sacra Entrata, in cui un anonimo condottiero romano motiva i suoi legionari alla battaglia finale. Il titolo stesso dell’album, dedicato ad Eliodoro, è una atto d’amore verso l’Italia, spartiacque dell’Europa. Ma chi è Eliodoro? Personaggio del tardissimo romano impero, di origine siciliana, si narra si dilettasse di negromanzia (goethia, come era chiamata la magia nera) e che si dedicasse all’alchimia. Famosa era la sua capacità di far credere ad ignari mercanti di star acquistando pietre preziose, che, poi, una volta dileguatosi, divenivano semplici mucchi di cenere. Qualunque siciliano conosce il mito dell’elefante Liotru, cui è dedicata una statua bronzea a Palermo. Allo stesso tempo, però, il titolo potrebbe rimandare al noto scritto di Pierpaolo Pasolini, di cui Rome si è detto essere più e più volte estimatore, Le Ceneri di Gramsci. Eliodoro, però, evoca anche la nostra stella: una stella, forse, morente, incenerita.
Dodici ottimi brani di martial industrial, fra cui spiccano The Legion of Rome e West Knows Best fra le altre: quest’ultima, così capace di catturare la nostra civiltà che, dall’alto dell’aver conquistato il mondo conosciuto, è discesa al vivere di infinite discussioni in parlamento a Bruxelles, che è indubbiamente frutto di un Rome in stato di grazia.
In ultima analisi, Le Ceneri di Heliodoro è una mano tesa all’America: siamo noi i vostri padri, è tempo di tornare a casa. Infine, avete capitolato anche voi. Non è arrivato nessun nemico ad attaccarvi, non ci sono mai stati i Tartari in quella Russia cui guardavate con tanto orrore. Anche voi vi siete ritrovati sotto un tiranno, anche voi, forse, avete riconosciuto che credere nell’”uomo forte” è solo un’illusione, che la natura umana è intrinsecamente meschina. Che il pericolo è dentro di noi, è come fumo scuro e polveroso, e non basterà un Muro a proteggerci da esso.
You would have won the world by letting go
But then you lost your way
Your glory days are gone, so smile and roll over
We’ve got so much more in common today
All hail the stumbling child king
Calling for the vanishing light
Now stay with us, as brothers
Through this darkest of nights, oh
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