Nel dicembre del 1975, Stephanie Oursler, artista statunitense ma che da cinque anni viveva ed esponeva regolarmente in Italia, inaugura presso la galleria Multimedia Arte di Erbusco la mostra Happy New Year. L’esposizione di Stephanie Oursler aveva uno scopo ben preciso: mostrare tutte le donne vittime di femminicidio di quell’anno. L’allestimento della mostra era molto particolare: appese alle pareti troviamo le foto di 11 donne (una per ogni mese dell’anno) uccise dai loro compagni/mariti/padri. La dodicesima cornice viene lasciata vuota come ad aspettare il prossimo nome da aggiungere ad una lista fin troppo lunga. Dei gradi sacchi neri pendono dal soffitto pieni di ritagli di articoli del giornale romano “Paese Sera” riguardanti altri casi di femminicidio accaduti nel corso del 1975. I sacchi rappresentano simbolicamente i cadaveri delle vittime messi in degli analoghi involucri al momento del loro trasporto in ospedale, andando a trasformare lo spazio espositivo in una sorta di obitorio dove ritrovare le vittime.
Siamo a metà degli anni Settanta, e il tema della violenza sulle donne è una questione urgente all’interno del movimento femminista. A distanza di 48 anni la situazione non è cambiata, e anzi rimane centrale nel dibattito sociale e politico del nostro paese. Ci ritroviamo ancora, dopo quasi mezzo secolo, a dover assistere con una media di circa uno ogni tre giorni (nel 2022, 56 donne. Dati ISTAT) all’uccisione di donne la cui unica colpa è stata quella di aver provato ad evadere dai meccanismi dell’oppressione patriarcale che ancora oggi pervade il nostro paese.
Le foto che si trovano affisse sui muri sono prese sia dai documenti d’identità delle vittime sia da album fotografici familiari appartenenti alle donne ritratte. Questo è lo stratagemma che Stephanie Oursler usa per far comprendere come nella maggior parte dei casi il carnefice è vicino alla vittima, andando a scardinare l’idea secondo cui la famiglia rappresenti un luogo idilliaco estraneo ad ogni tipo di violenza e sopruso.
Nel 1976 Happy New Year diventa una raccolta. Le immagini della mostra vengono modificate e assemblate in un volume, pubblicato per le Edizioni delle Donne, che prese il titolo di Album di Violenza, la cui introduzione venne affidata alla psicoanalista Manuela Fraire. Nel suo saggio Fraire esaminò il tema della violenza sotto una nuova lente, svestendola dallo sguardo distaccato delle testate giornalistiche e quindi analizzando il problema dall’interno eliminando la distanza interposta dai media. Secondo la psicoanalista le donne che leggono questi articoli compiono una pratica sbagliata: quella di immedesimarsi nelle vittime. Questa immedesimazione determina una ripetizione della passività di cui si vuole investire il femminile, che porta quindi ad un mancato riconoscimento della donna nei panni di chi può veramente attuare un cambiamento sociale.
Lo scopo dell’Album e della mostra stessa è quello di mettere in luce la facilità con cui storie del genere passino in sordina sui quotidiani locali: quindi di presentare storie lette al mattino e buttate nel secchio la sera stessa, aspettando il giorno seguente per ripetere lo stesso procedimento. Il prelevare dal “mucchio” undici donne, che fanno da paladine del lavoro della Oursler, vuole evidenziare questo problema sociale e contrastare i lettori dei quotidiani che cercano storie di persone senza volto. L’Album è anch’esso diviso nei vari mesi dell’anno scanditi dalle undici foto originariamente appese alle pareti della mostra di Erbusco. Ad inframezzare le undici foto abbiamo gli articoli contenuti nei sacchi neri dell’immondizia appesi al soffitto della galleria.
La particolarità dell’Album di Stephanie Oursler sta nel riportare gli estratti degli articoli omettendo le informazioni basilari riguardo la vittima, come a volerla deumanizzare. Gli articoli sono collegati uno all’altro senza interruzioni. Questo escamotage serve all’artista per trasformare il suo lavoro in un racconto: la mancanza dei nomi e la ripetitività delle situazioni fa quasi pensare che persone diverse raccontino la stessa storia. Quello che si viene a creare nell’Album, dunque, è la storia di tutte le donne. Si mette in primo piano quanto l’oppressione femminile vada a sovrastare le differenze sociali ed economiche: la violenza di genere unifica le donne a livello globale, rendendole tutte oppresse allo stesso modo, in quanto si presenta come fenomeno interclassista e interraziale. Secondo Manuela Fraire alle donne vengono negati i diritti di autodeterminazione e il diritto di costruire in prima persona la propria storia. Quello che Stephanie Oursler vorrebbe trasmettere con quest’opera è il desiderio di rivalsa sociale delle donne nella loro totalità, arrivando all’abbandono del ruolo di vittima che si riconosce nel meccanismo della violenza e conseguentemente distruggerlo.
La visione che Stephanie Oursler e Fraire vogliono dare di questo problema è una visione femminile, che accantoni la tipica trasposizione della realtà in un’ottica maschile e patriarcale.
Sarebbe bello poter dire che l’opera di Stephanie Oursler e il suo messaggio siano lo specchio del suo tempo e che noi, come società, siamo andati avanti lasciandoci alle spalle buona parte della cultura violenta e patriarcale. Secondo i dati diffusi dal Viminale, aggiornati al 12 novembre, sono stati registrati 285 omicidi, in 105 dei casi la vittima è una donna. 82 donne sono vittime di femminicidio, ossia il loro carnefice proveniva dall’ambiente familiare o affettivo, di cui 53 uccise dal partener o ex partener. “Femminicidio” è un neologismo coniato negli anni Novanta per identificare gli omicidi in cui le vittime venivano uccise perché donne.
In questi giorni le strade e le piazze di molte città italiane sono state invase da una marea arrabbiata, formata da persone di ogni genere, estrazione sociale ed età, pronta a rivendicare il diritto delle donne di sentirsi libere di vivere la propria vita senza la paura di essere uccise per il semplice fatto di essere donne. E mentre le piazze si riempiono, le aule del governo si svuotano a simboleggiare l’immobilismo sociale di cui è vittima il nostro paese e l’incapacità della politica di stare al passo con quelli che sono le richieste dei propri cittadini.
I nostri governi non sono stati in grado, in tutti questi anni, di mettere in pratica delle vere norme a tutela delle donne, sebbene, al pari degli omicidi, i femminicidi abbiano segnato una netta diminuzione a partire dagli anni ’80 in poi (da 455 nel 2002, alle 53 del 2022). I mezzi usati, come gli spot pubblicitari o gli opuscoli informativi, non sono sufficienti a sensibilizzare e educare la popolazione perché rivolti alle donne, alle vittime, e molto raramente alla prevenzione. Le donne, vittime, sono anche le uniche chiamate in causa che devono rendersi conto del pericolo a cui stanno andando incontro e denunciare, sperando di essere credute e di veder fermato il proprio aguzzino in tempo (cosa che tuttavia succede nella stragrande minoranza dei casi). Nei cortei dei giorni scorsi, e sicuramente in quelli futuri, la richiesta che si leva unanime a gran voce è quella di iniziare ad educare i propri figli maschi. È ora che il genere maschile prenda esempio dal movimento femminista degli anni Settanta e inizi a praticare l’autocoscienza pratica che, cito da Carla Lonzi, “riporta il problema della dipendenza personale all’interno della specie femminile come specie essa stessa dipendente. Accorgersi che ogni aggancio al mondo maschile è il vero ostacolo alla propria liberazione fa scattare la coscienza di sé tra donne”. Quindi è arrivato il momento che gli uomini prendano coscienza di sé in quanto individui, liberandosi dai retaggi patriarcali tipici della mascolinità tossica che proibisce all’uomo di entrare in contatto con il suo io più profondo. Per arrivare a questo è fondamentale introdurre nelle scuole fin dalle elementari l’insegnamento dell’educazione sentimentale e sessuale, entrambe prerogative per far crescere le future generazioni consapevoli di loro stessi e della loro sfera emotiva e del prossimo in quanto individuo con eguali diritti.
Sicuramente questo non eliminerà la violenza dalle nostre vite, ma rappresenterebbe un enorme passo avanti nella lotta contro di essa.
Articolo a cura di Giulia Siracusa
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