Lo sghembo percorso psych pop degli Allah Las si arricchisce di un nuovo lavoro, il quarto, intitolato Lahs.
Sulla breccia dal 2012 col disco che portava il loro nome, il quartetto californiano è sicuramente un culto per gli appassionati della buona musica. Difficile ipotizzare per loro un successo su larga scala, specie perché sembrano i primi a volerlo rifuggire.
La band si forma dall’incontro tra Matt Correia, Spencer Dunham – compagni di scuola – e Pedrum Siadatian. I tre lavoravano assieme all’Amoeba Records; l’innesto di Miles Michaud completerà l’organico.
Lavoravamo in magazzino, svuotando cesti su cesti di dischi usati e mettendoli in vendita in negozio. Otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana sedevamo lì, cambiando confezioni rotte per delle nuove, ascoltando roba di gruppi che non avevamo mai sentito prima – ebbe a ricordare Pedrum ai tempi del primo lavoro.
Le influenze degli Allah Las sono chiare fin da subito, così come il loro ostinato non voler cambiare rotta.
I quattro si dedicano da subito a rievocare un jangle pop in stile Byrds, incrociandolo col beat degli Yardbirds e la psichedelia dei Love. Su tutto, una spruzzata di Paisley Underground e un look che pare uscire dal periodo della svolta elettrica di Bob Dylan.
Chi scrive ha avuto la fortuna di ascoltarli dal vivo – al compianto Siren Festival di Vasto – e l’impatto è peculiare: si era nell’antico Palazzo D’Avalos, ma bastava un po’ d’immaginazione per vedere le assolate spiagge di Big Sur. Magari filtrate da un crepitante filmino girato in super 8.
Il nuovo disco pare essere ulteriormente provocatorio verso chi li accusa di non saper andare oltre il 1966.
La componente garage è quasi del tutto messa da parte in favore di atmosfere ancora più rilassate da west coast. A tratti pare quasi di ascoltare il Tulsa Sound di J. J. Cale, tanto è il relax che trasuda dal tutto.
Holding Pattern apre le danze in modo programmatico: un pezzo semi strumentale, rilassato e intarsiato da ghirigori di chitarra che ricordano dei Grateful Dead più soft.
Keeping Dry sembra quasi un tributo – riuscitissimo – alla celebre Cocaine del già citato Cale. In The Air è stato scelto come singolo, una decisione che – al pari della copertina non troppo accattivante – sembra quasi rientrare in un progetto di respingimento del pubblico meno avvezzo.
Si prosegue con la curiosa Prazer Em Conhecer, un’efficace melodia con tanto di ficcante chitarra slide, cantata in portoghese.
Quasi un omaggio alla tropicalia di band come gli Os Mutantes. Lo strumentale Roco One fa spazio alla bellissima Star, che pare ancora prendere Cale a esempio; qui in particolare gli arrangiamenti sono fatti di fili pendenti che sembrano partire per chissà dove sulle ali di una chitarra liquida o di un organo sixties, per perdersi nelle rilassate brume del loro sound.
Royal Blues è un divertissement da fricchettoni sotto l’effetto di qualche acido, e si va avanti con queste atmosfere fino alla fine del disco, infilando almeno un altro capolavoro minore: On Our Way. Il titolo del pezzo pare essere la quintessenza del percorso degli Allah Las.
Già, perché di fronte a lavori come questo la domanda è sempre la stessa: la derivatività è o no un peccato originale incancellabile?
Per chi scrive, no. Specie se si è intenzionati più a diventare una band cult che a sgomitare su Billboard.
Del resto, se per rock intendiamo quella musica fatta con le chitarre elettriche per dire qualcosa, l’ultima innovazione risale più o meno al punk e alla new wave. E allora ben venga un disco come questo Lahs, che riappacifica con un modo di fare musica sempre più raro.
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