Bjork, Utopia vs Vulnicura, avanguardia vs intimismo: quale sarà il passo successivo

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Gli ultimi anni di carriera, al 2020, di Bjork sono stati burrascosi, segnati dai suoi eventi personali e dalla collaborazione con la producer Arca: analizziamoli.

Un Glaucus atlanticus svolazza nel video di Utopia di Bjork, un animaletto marino fortemente velenoso, lungo pochi centrimetri.

Sempre rimasta fedele a sè stessa, a standard compositivi altissimi, attenta alle nuove tecnologie, struggente nella capacità di inventare interi microuniversi, Bjork nella sua lunghissima carriera ha realizzato solamente 9 album, tutti, all’unanimità, riconosciuti come seminali per la musica d’avanguardia. Unendo, ogni volta, a tale uscita, un tour di performance art fortemente studiato, strutturato, mai esclusivamente limitato alla riproposizione dal vivo della musica registrata in studio.

Soprattutto, oltre che grande innovatrice della musica, Bjork è stata ed è un’artista socialmente impegnata. Il culmine di tale tendenza, forse, si è raggiunto proprio con Utopia, suo ultimo album – 2018 – il cui focus è, semplicemente, l’amore.

La semplice operazione matematica che prevede il diritto all’amore come condizione necessaria ma non sufficiente nel campo dei diritti civili è alla base di Utopia, in cui sesso, affetto, sogno, mondi iperborei e fluttuazioni quantiche si mescolano.

Fra tre giorni Utopia compirà due anni ma non ha ancora imparato a parlare, semplicemente perché non significa quasi niente. Ora, so che verrò linciata per tale affermazione, ma, alla fine, sotto sotto, la forma canzone non ci faceva così schifo.

E non faceva così schifo la semplicità espressiva dei primissimi lavori di Bjork, Vespertine su tutti: la florida eleganza dei brani di Post – fra cui Hyperballad, forse la sua traccia più celebre – e il decadente, meraviglioso, struggente Homogenic. Un corpus musicale di una quarantina di brani che ha creato una nuova estetica musicale, un linguaggio sinestetico, pluriespressivo, in grado di mescolare sia la personalissima ricerca di un’artista con le obbligate necessità di farsi comprendere. Perché l’arte è prima di tutto connessione col fruitore, è messaggio, è evoluzione, è spinta critica: non è – esclusivamente – masturbazione. Cioè sì è anche masturbazione, eh. Come tutte le cose piacevoli, anche in essa ci vuole arte, e nella sua molteplice trattazione atipica del sesso, Bjork ce l’ha abbondantemente insegnato contribuendo ad educare, più che un pubblico femminile, quello maschile degli anni ’90, che, pur sbavando sui suoi abiti da cigno agli Oscar, ha saputo anche afferrarne l’intrinseco, autodefinentesi, femminismo.

Cosa ne potrò sapere io, in fondo, degli abissi espressivi ed esplorativi e rosa shocking di cui si nutre e che nutrono Bjork? Un tale genio, cui solo, forse, Thom Yorke è stato pari? Eppure, come diceva anche Kant nella Critica al Giudizio (e non solo Giulia Della Pelle), sono le sensazioni altrui – intese anche come al di fuori di sé ma rivolte all’interno – a definire cosa e come è un oggetto – il suo fenomeno visibile. Dunque, sebbene Utopia di Bjork abbia dei momenti altissimi, lirici, esplosivi, sensuali, pornografici, ludici, melanconici… Beh, in estrema sintesi, è inascoltabile.

È inascoltabile nei cantici iperelettronici inseriti con armonie che si rifanno a cinguettii degli uccelli; nei pretestuosi quanto inutili rimandi alla musica neoclassica che viene, fra Mozart e Salieri e ocarine completamente prive di significato, volutamente stuprata. Strati musicali di arrangiamenti ottimamente mixati ma che risultano essere sostanzialmente privi di capacità espressiva, di sincero sentimento, involontariamente pretenziosi, in cui la melodia viene sfilacciata e strizzata e i singoli eventi armonici vanno sommati per ottenere frasi di senso compiuto – un’inclusione di matrioske musicali che risulta comprensibile solamente all’arrangiatore, nello specifico, oltre a Bjork, la producer colombiana responsabile, parzialmente, anche del concept volutamente, stavolta, provocatorio, Arca. Artista che, nel suo personalissimo progetto, porta avanti il valore dell’inclusione, della volontà di essere se stessi perchè, semplicemente, non c’è niente di male.

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La bontà, però, del cristallino talento di Bjork appare e traspare chiaramente, nonostante il sound design assolutamente eccessivamente stratificato – campanelle, echi, nenie, theremin, synth e i flauti. Tanti, tantissimi flauti, che l’hanno accompagnata anche nel residency show di Utopia, onnipresenti dalla intro Arisen my Senses, che, dopo una splendida partenza new age, si perde in un pastrocchio di rimandi interni su rimandi, con brani che sono esclusivamente soundscape per un bel pomeriggio di sesso – anche questo, ovviamente, pretenzioso. Abbiamo momenti felici, eh. L’inizio di The Gate lo è. I crescendo amusicali di e rumoristici di Features Creatures. Così come tutte le sezioni di flauti, pregevoli, birichine, da Primavera di Botticelli. Piccole, dolci, tenere, morbide, orge nei boschi colorati di rosa – cosa che, effettivamente, avviene nei videoclip di Utopia.

Il problema di Utopia non è la mancanza di personalità, come accade nel 99% dei casi della musica che non resterà alla storia: è che straborda di personalità e mitomania.

Kate Bush, quarant’anni fa, quasi cadde nello stesso tranello, con The Sensual World, ma riuscì a sfuggire alla forza gravitazionale dell’abisso quasi miracolosamente: Bjork, nelle ossessive ripetizioni di Courtship, non c’è riuscita. Così come non è, di nuovo, riuscita a definire la sessualità libera delle donne vestendosi da vulva magica.

Il principale indizio che ci guida alla gabbia in cui la cara Bjork s’è rinchiusa, e Stockhausen e Cage e Yorke e Trent Reznor prima di lei, è la perenne, asfissiante, presenza della sua voce, che non è neppure modalità in modo teatrale e caldo, morbido, accogliente, ma è respingente, totalmente scollato dal concept d’amore e carezze, tranne che nel caso di Losss, forse il miglior brano dell’album. Utopia, che si conclude con Future Forever, troppo anni ’80 per essere vero, rappresenta, senza dubbio alcuno, un gigantesco, commerciale, egomaniaco, passo indietro rispetto a Vulnicura.

Ecco, Vulnicura. Un lavoro, di pochi anni prima, che aveva abbracciato la semplicità, un concept sincero e non artefatto – post rottura con Matthew Barney, uomo e regista e modello conosciuto principalmente per esserne stato fino al 2013 il compagno ma, in linea di massima, una piattola. E, in quest’ottica, è comprensibile, anche, forse, la necessità di rivoluzione sessuale presente in Utopia, un mondo privo di ometti senza personalità e che, in ultima analisi, sanno solo grugnirsi fra di loro.

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 Bjork è un genio. Lo è senza dubbio, lo è in modo cristallino: è un genio nel trattare le emozioni, nel fotografarle, trasformarle in estasi, e Vulnicura ne è la rappresentazione eccelsa. Ed è esso, già nella sua intro Stonemilker (I need emotional respect, oh, how I need it) a rappresentare un’anima sincera, dolce, materna, ma anche femminile, che cerca conforto, ma che è forte, di granito, nel trovarlo nella sua stessa arte – che è eterna, è al di là delle vicende umane, che hanno del macabro, del morboso, rispetto alla luce cristallina che è espressa nella sua musica. La mano di Arca c’era già qui, ma era più sottile, e la presenza di Bjork, quella che con le contaminazioni pop ha rinnovato l’art rock, è piacevolmente ingombrante. Vulnicura è un album quasi lounge, solo soundscape e voce, ma voce melodiosa, cantastorie, nella dolcissima A History of Touches, e nella suite Black Lake, che è un aftermath doloroso di All is Full of LoveMy heart is an enormours lake – , nonché in Family, fatta di archi distorti e ferite (“vulnus”, in latino). Qui comincia l’abbandono della forma canzone bjorkiana, ma giustificato dall’essere un flusso di coscienza nei confronti del quale chiunque può empatizzare. La rapida e incisiva, e arrabbiata, Quicksand, chiude con rabbia Vulnicura, elevando a valore universale la sofferenza amorosa, mostrandola con orgoglio.

Dunque, cosa ci si potrà aspettare dalla Guðmundsdóttir? Un auspicabile ritorno alle sonorità personali e minimal di Vulnicura, una rinascita del pop come fece nella prima parte della sua carriera, o ancora, un’insistenza stucchevole nell’inesistente utopia di Utopia?

Il folletto di Reykjavik saprà stupirci di nuovo. Artista matura e cosciente, la attenderemo sempre.

Giulia Della Pelle
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