Black Phone: il ritorno in forma di Scott Derrickson [Recensione]

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Black Phone è il nuovo horror-thriller creato interamente di pugno da Scott Derrickson, di sicuro uno dei più in forma del suo genere (Sinister, L’Esorcismo di Emily Rose).

Reduce da un ottimo lavoro registico con Doctor Strange, questa volta, il cineasta americano si prende totale pagina bianca, adattando l’omonimo racconto scritto da Joe Hill, e partorendo un’inquietante, e trascinante storia, ambientata nel Colorado di fine anni ’70.

Black Phone: sinossi del film

Il film vede coinvolti il tredicenne Finney, e la sorella Gwen, intenti a risolvere il mistero che si cela dietro i rapimenti, frequenti nel loro quartiere, compiuti dal “Rapace” (Ethan Hawke), mentre lottano contro un’infanzia piuttosto difficile, governata da un padre alcolista e violento, e da una personalità piuttosto sensibile ed indifesa dei due; ciò costringe Finney a cercare di evitare qualunque tipo di aggressione fisica nei suoi confronti (che sia da parte dei bulli, o dallo stesso padre).

Il destino del bambino in Black Phone, sfortunatamente, incrocia quello del “Rapace”, e dopo un faccia-a-faccia con quest’ultimo, si risveglia in un seminterrato a prova di suono, con all’interno nient’altro se non un telefono nero, di vecchia generazione: l’espediente narrativo è proprio l’oggetto appena citato, apparentemente un innocuo telefono non funzionante, che si rivela, però, una sorta di collegamento tra Finney e le precedenti vittime del rapitore.

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(from left) Vance Hopper (Brady Hepner) and Finney Shaw (Mason Thames) in The Black Phone, directed by Scott Derrickson.

Black Phone: Pareri e Conclusioni

Quando un filmmaker decide di mettere in piedi un’opera, interamente frutto del suo genio, di rado capita di trovarsi di fronte ad un totale fallimento; ciò che Derrickson compie con Black Phone (di cui è sceneggiatore, regista e produttore) è proprio quello di trasportare a schermo un prodotto personale, conferendogli una solida scrittura, un’ottima regia e persino una propria morale.

All’interno di un genere cinematografico in cui, recentemente, di morali se ne trovano ben poche: il film, infatti, ha l’obiettivo di prendere le distanze dagli stereotipi che, specialmente negli ultimi anni, hanno connotato il genere dell’orrore, e presentare invece una tangibile storia che, nel bene o nel male, fa tornare la mente dello spettatore in quell’era fanciullesca, dominata da difficoltà relazionali e dalla paura più grande dell’essere rapiti (Mai Parlare con gli Sconosciuti, non a caso, è il sottotitolo del film).

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La pellicola è piena d’azione, regge e intrattiene il pubblico, mantenendo un adeguato livello di tensione per l’intera sua durata, in modo particolare durante il terzo atto, a tratti abbandonandosi anche a scelte che potrebbero apparire alquanto irrealistiche, ma che inspiegabilmente risultano plausibili ed estremamente coinvolgenti.

Merita una menzione l’intero cast, con attori perfettamente idonei per la loro controparte a schermo; stupisce profondamente la prestazione dei due protagonisti: Finney, interpretato da Mason Thames, e Madeleine McGraw nei panni della sorella Gwen.

I due giovani spiccano per l’ottima chimica e, tra le altre cose, attribuiscono all’intera opera un sottile tratto ironico, che permette di bilanciare la forte tensione, resa tale dalla grande abilità del canadese Mark Korven nel creare un preciso tipo di sound, creepy e avvincente, a cui si è affidato niente meno che Robert Eggers, per il reparto sonoro dei suoi due principali colossi (The Witch; The Lighthouse).  

Significativa è anche la prestazione della star del film, Ethan Hawke (“Il Rapace”), che abbraccia la Follia del suo personaggio, e nonostante i ruoli antagonistici non siano nelle sue corde (come rivelato da Derrickson) si immerge in una performance inquietante, criptica, ed accattivante.

Dopo il successo di Sinister, Scott Derrickson e il suo fedele co-scrittore Robert Cargill, con Black Phone, provano nuovamente di conoscere la prassi e le giuste modalità per colpire l’animo degli amanti dell’horror, e, in un’era nella quale risulta estremamente difficile soddisfare i fan di questo genere, danno dimostrazione della reminiscenza dei classici paradigmi dell’Orrore, che i prodotti moderni dovrebbero, più spesso, presentare.

Guglielmo Tamburino
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