È calato improvvisamente il sipario su una delle artiste più rivoluzionarie della musica internazionale, una sopravvissuta perseguitata dai fantasmi con una grazia fragile ed eterea.
Ribelle, folle, romantica, disperata e autodistruttiva, una vita esagerata e tumultuosa. La sua musica, così viscerale e irruenta, ha abbracciato due generazioni intere, compresa la mia. Un’interprete che si è permessa il lusso di essere autenticamente se stessa, nonostante il resto, nonostante tutto. Sinéad O’Connor se n’è andata da sola, se n’è andata da un mondo che non ha compreso il suo disagio e il suo rifiuto incessante verso i compromessi.
Lei, che ha guadagnato fiducia senza finzioni o sotterfugi, ha subito il più pesante contraccolpo sessista e conservatore che potesse mai esserci che l’ha portata a ritirarsi dalla vita pubblica. Negli anni ha condiviso i suoi dolori con una crudezza toccante e un lirismo astratto. “L’ho visto come una partita a scacchi”, aveva detto della sua fulminea ascesa a star del pop internazionale nei primi anni ’90.
Ma a O’Connor non interessava il successo planetario, lei sapeva di avere un microfono e lo usava non solo per cantare. Si è esibita con il logo Public Enemy dipinto sulla sua testa rasata ai Grammy del 1989 e ha strappato una foto del Papa durante il Saturday Night Live, annunciando: “Combatti il vero nemico” dopo che erano scoppiate le prime denunce di abusi sessuali sui minori da parte della Chiesa cattolica.
Il contraccolpo è stato rapido e quasi universale. Aveva solo 26 anni, era solo una ragazza. Eppure Frank Sinatra e Jonathan King – tra moltissimi altri – si scagliarono contro le sue posizioni anticrericali con una violenza inaudita. Dieci giorni dopo la presa di posizione al SNL, Sinéad venne accolta dai fischi del pubblico dal Madison Square Gardens, dove doveva esibirsi in onore di Bob Dylan. Era tutto contro di lei. Erano tutti contro di lei. Tutti, tranne uno: Kris Kristofferson. Lui l’ha incoraggiata, le ha teso una mano quando il resto le aveva voltato le spalle.
Alcuni hanno obiettato e sottolineato che avesse sabotato la sua stessa carriera, eppure è difficile non ammirare la sua impavida onestà. Al giorno d’oggi è strano, quasi impossibile che un’artista di 26 anni sia ligia e ferma sulle sue posizioni, Sinéad però aveva dei principi saldi e li ha rispettati. Negli anni mi sono sempre chiesta se si sia pentita di tutto ciò o che cosa sarebbe accaduto alla sua carriera se non avesse strappato quella fotografia. Probabilmente avrebbe continuato a registrare album di musica folk tradizionale irlandese o trasformare una canzone di Loretta Lynn in uno scenario apocalittico o pubblicare canzoni roots reggae.
Vabbè, ma queste sono tribolazioni inutili e personali, che ora non servono a niente. Che cantante però, che talento immenso. Mi fa rabbia che per Sinead O’Connor non ci sia stato un secondo atto, un’altra change. Si è aperto e chiuso in pochissimo tempo. Forse la sua morte, così inaspettatamente precoce e dolorosa, farà riscoprire l’artista forte e fragile, rabbiosa e vulnerabile che era, un animo instabile, ma dal talento puro e cristallino che poteva diventare facilmente tempesta, frantumare le finestre e lasciare gli interni lacerati.
Il dono più prezioso, però, rimane quel fermo immagine del primo piano del suo volto, con una lacrima che le taglia la guancia. Lei canta e non si riesce a distogliere lo sguardo. Niente si paragona a te.
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