Fall è il nuovo album dei norvegesi Borknagar, uscito per la Century Media il 23 febbraio 2024.
Fall dei Borknagar non è un semplice album: è una promessa. Perché la melodia continui a guidare la musica, e perché l’onesta cura per l’espressività del suono sia il suo scopo finale. Perché l’arte è comunicazione, non solo egoriferita enumerazione di sé.
Fall dei norvegesi Borknagar – anagramma di ragnarok con, in più, una b – è forse il loro album migliore di sempre, anche se il precedente True North era già di rara bellezza, grazie a tracce come Voices e The Fire that Burns – e Fall ne è una continuazione. Come, del resto, tutti i lavori dei Borknagar nascono da quel manifesto del 1998, The Archaic Course. Il black metal sporco, lo-fi, spavento e urla, doppia cassa e voluto lerciume, lasciò spazio a suoni cristallini, giganteggianti epopee folkloristiche e linee vocali glaciali. Soprattutto, però, la melodia. Harsh e clean vocals (ICS Vortex e Lazare, rispettivamente) che si intrecciano, l’una abbraccia l’altra – come successe per i Dimmu Borgir. Senza, però, la parte in cui si gioca a fare il cosplay del maligno, che ormai puzza un po’ di stantio.
Ecco, Fall si erge in splendida continuità entro questo solco, e, sebbene non aggiunga sostanziali novità alla poetica musicale dei Borknagar, risulta in ogni caso in 55 minuti di musica eccellente. Elegante. Dalle soluzioni pulite, semplici, lineari nella loro complessità: ogni filo dell’ordito è facilmente seguibile, e si congiunge senza nodi al delicato disegno ricamato finale. Questo è già evidente dalla bella Summit, otto minuti di brano che introduce Fall – si parlerà della caduta o di come oltreoceano si chiama l’autunno? – in cui un magnifico giro di chitarra predispone le carte in tavola per l’esposizione seguente. Nonostante l’introduzione in harsh vocals, il tono generalmente è gentile, arrendevole: l’oscurità va abbracciata come una vecchia amica, e non fieramente combattuta. Il buio arriverà ogni inverno, e il sole non sorgerà per mesi. Il ciclo della vita continuerà, la primavera tornerà a scaldare gli alberi dormienti. Le frequenti pause e cambi di movimento in Summit la rendono tutt’altro che monotona, ed è un piccolo album in un album, impreziosito dall’ottima produzione e i piccoli accorgimenti synth, quasi maniacali, di Øystein G. Brun. Di particolare impatto sono le alternanze di chitarra acustica, fortemente riverberata – quasi si suonasse al caldo di un falò in una conca fra mura di pietra, una foresta a picco su un fiordo – e di frasi musicali in clean vocals, un inno vichingo; modernità e radici antiche. Esattamente ciò che il prog dovrebbe fare: progresso, in termini di ricerca musicale e di crescita personale, filosofica ed antropologica.
I carry my history
Bold and Serene
Tuoni e percussioni norrene introducono Nordic Anthem, un’incursione di Wardruna ed Heilung nel suono dei Borknagar: è il momento per la meditazione; del canto ipnotico, della riscoperta dei riti sciamanici dimenticati. Grida nella nebbia lasciano spazio ad un chorus trascinante che è una promessa, ancora, di libertà interiore:
We Won’t Bend Our Knees to Any God
Il che, personalmente, trovo sia un messaggio estremamente potente – quanto inusuale, per la scena cui i Borknagar appartengono – per la forma che i Borknagar hanno scelto, ossia delle ballata tradizionale nordica: le religioni, antiche e moderne, sono rifiutate in toto, in favore del culto dell’umanità e del nostro grande dono – il libero arbitrio. Che si tratti degli Olimpi, degli abitanti di Asgard o di Taylor Swift, la loro intrusione è una limitazione della libertà personale dell’individuo. Afar è un altro brano Borkganariano di estrema bellezza, pomposo e barocco, sebbene molto più sintetico di Summit e forse più aggressivo; alla filosofia umano-centrica di Nordic Anthem, però, si aggiunge l’unico altro culto ammissibile: quello per la natura, cui facciamo parte e che ci sostiene; rispetto alla quale siamo infinitamente piccoli. La voce pulita diviene dolcissima, campo di margherite in un prato verde, stella alpina che sbuca dalla neve, pregando perché l’umanità si unisca nella battaglia finale – proteggere ciò che di vivo abbiamo attorno; la sua diversità, la sua minuscola ma giganteggiante bellezza. Cambi d’accordo come attori in una piece teatrale, in Afar: progresso ed infinita conoscenza della materia trattata. Se Afar si chiude guardando alle stelle, la successiva Moon sposta lo sguardo un po’ più in là e si volge alla luna. L’ingannevole canto folk iniziale lascia spazio ad un assolo di chitarra improvviso; ammirevole è, però, la consistenza interna del brano. Mari e montagne lunari, lievi variazioni di grigio, ma stessa polvere leggerissima e silenzio imperturbabile.
Si indugia in una luce delicata ma fredda, mentre quella di Stars Ablaze, sebbene si riferisca alle aurore boreali, è violenta come una supernova – echi dei God is an Astronaut nella costruzione complessiva del brano. Dieci minuti di suite che è una piccola tragedia astrale, minuta ma ricca d’oro, piombo, e metalli rari. Si introducono flauti, con piatti a supporto di essi – quasi jazz scolastico che però funziona benissimo. Momenti di violenza – brillamenti – si intervallano ad attimi di pace, e le polveri sottili si organizzano in nebulosa attorno alla stella centrale. Ho contato almeno 8 cambi di accordo e movimenti differenti, tutti funzionali all’aspetto finale del brano e nessun eccessivo orpello; rococò. La chiusura di Stars Ablaze è in continuo crescendo, e i momenti di violenza divengono più frequenti e più intensi: le luci del nord, verdi nel cielo, esplodono come antimateria. La bella Unraveling mima quanto già espresso in Moon sebbene lo renda più accessibile ad un pubblico ampio: una tendenza di tante band che sono nell’ambiente da decenni. Ci si ammorbidisce con l’età, perfino in Norvegia, e così il chorus di Unraveling diviene quasi nu-metal. Il messaggio non ha importanza se nessuno è in grado di leggerlo.
C’è spazio anche per la ballad dell’album, in Fall, la sua Voices: ed è The Wild Lingers. I piccoli accenni alla poetica ambientalista di Fall erano già stati seminati, ma il messaggio qui è chiaro, cristallino. La bellezza della natura è ovunque intorno a noi, e sa suonare la sua melodia, se solo noi sappiamo essere abbastanza silenziosi da permetterglielo. Calma, sorretta solo da voce pulita che è un gentile sussurro, pad atmosferici e chitarre, The Wild Lingers è un tenero germoglio di ginestra dopo un incendio.
Fall è degnamente chiuso da Northward, che recupera l’oscurità di Summit ed idealmente congiunge il cerchio autunnale. Doppia cassa, harsh vocals, accordi diminuiti: tutti gli stilemi del prog black nordico. La totale libertà compositiva della chitarra evoca spettri notturni, correnti ascensionali che trasportano pesanti fiocchi di neve.
Fall è la crescita di una band, e di un gruppo di esseri umani che non sono monadi, che non sono ciechi. Che vedono ciò che hanno intorno a sé: vedono il deteriorarsi del nostro mondo, e riconoscono che, perfino nella loro oscura ma benedetta terra, il male – quello vero, non quello decantato ed idolatrato dal black metal classico – è inesorabilmente arrivato. Fall è la consacrazione definitiva di un band, di un progetto, di un manifesto.
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