La Grande Bellezza è un film del 2013 diretto e sceneggiato da Paolo Sorrentino (con co-autore Umberto Contarello) stranoto al pubblico di tutto il mondo per la vittoria agli Oscar, e ancora oggetto di dibattito tra gli amanti e i detrattori della pellicola.
“Chi sono io?” questo chiede Jep Gambardella (il miglior Toni Servillo di sempre) citando un romanzo di Breton. È tutto racchiuso qui, in questa domanda, il senso più immediato de La Grande Bellezza, che ne restituisce il vuoto dello scrittore napoletano trapiantato a Roma, che non ha più scritto un libro, perché “impegnato a fare tardi la sera”.
La malinconia silenziosa, il dolore ammaestrato, l’indifferenza umana in rapporti che hanno solo il vincolo dell’etichetta, raccontano ne La Grande Bellezza, in una intensa carrellata di volti e di luoghi, la movida nella Roma degli artisti e degli alto borghesi, mentre un senso durevole di morte affiora da certi particolari, e ci si rifugia in un vitalismo alcolico e senza pensieri, quasi per esorcizzare il fantasma affiorante della propria futilità.
Jep è istrione dalle maschere molteplici, uomo che ha amato e che è rimasto imprigionato nell’amore e per l’amore si è nullificato; scrittore e giornalista, in qualche modo personaggio ombra dei personaggi di Mastroianni ne La dolce vita e 8 ½.
Il suo è il disagio dell’intellettuale nel mondo (e in particolare nella Roma) al culmine della decadenza dei costumi; con la sensibilità di chi è nato “per essere uno scrittore” Jep sfiora con attenzione le vite, osserva teneramente queste storie devastate di uomini e donne (“questa fauna” li definirà) oramai vissuti, oramai intasati in una Roma contraddittoria che fa del rimbalzo estetico tra nuovo e vecchio, alto e basso, sacro e profano, la sua cifra.
Filo costante nella narrazione di Sorrentino ne La Grande Bellezza è il parallelismo e la sovrapposizione tra una mitizzazione classica – dei luoghi, delle musiche, di certi volti – e la volgarità decadente e cafonal del micro-mondo Roma nella modernità.
Da qui ne esce un film sorprendente in termini di visivi (una Roma così per immagini non si era mai raccontata), non troppo originale se si parla di storia (qui il Sorrentino felliniano non si cela neanche troppo) ma dall’intensa esplorazione di uomini-mondo complessificati e restituitici nella loro gretta meraviglia come paradigmi delle sfaccettature più ingombranti dell’”Apparato umano”.
Come sempre Sorrentino non giudica: egli riporta, egli distorce e accarezza finanche con tenerezza i suoi protagonisti eticamente discutibili. Egli fa questo sorretto da una brillante sceneggiatura e da un cast (tra cui spiccano i nomi, tra gli altri di Verdone e della Ferilli; di Pamela Villoresi e Luca Marinelli) in quello che può ben dirsi, la parabola di un uomo alla ricerca di se stesso, ma che a tutti gli effetti è un film corale, di personaggi caricati di vezzi ma mai macchiettistici.
Il tema dell’amore, della morte e della rinascita nell’amore racchiude, nel particolare, la vita di Jep, ma è anche esemplificazione di tutte le vite nelle loro diversità. Jep avrà bisogno proprio della morte della persona da lui più amata, per attraversare quel varco che, tra sé e sé, lo separa dalla vita.
“Stavo cercando la grande bellezza…ma non l’ho trovata” dirà ad una missionaria che gli chiede perché non ha più scritto.
Il finale è un inizio: quello in cui, Jep, deciderà di scrivere un romanzo; quello in cui, tornare nel luogo della prima volta, vuol dire darsi la possibilità che ci sia una nuova prima volta. E, magari, pur non avendo trovato ancora la propria grande bellezza, mettersi nelle condizioni di continuare a cercarla.
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