Io ero presente alla prima mondiale del nuovo film del regista francese Luc Besson, DogMan. Da quando vivo a Venezia cerco sempre di andare al Lido per vedere i film del festival. Scelgo sapientemente quelli che andrò a gustarmi nelle gelide sale predisposte alla kermesse. Quest’anno ho lasciato scegliere alla mia amica cosa saremmo andate a vedere. Il messaggio che mi arrivò poco dopo è stato “Ho preso i biglietti per Besson, giovedì alle 21:45, vestiamoci bene che siamo in Sala
Grande”.
Arrivate finalmente al grande giorno, dopo aver provato a sbirciare il red carpet del film, io e A., scherzando sul fatto che Arthur e il popolo dei minimei sia il capolavoro cinematografico di Besson, ci dirigiamo all’interno della prestigiosa Sala Grande circondate dall’eterogeneità che contraddistingue il festival di Venezia. Con i classici quindici minuti di ritardo accademico Besson e il suo cast fanno il loro ingresso nella sala, accompagnati da applausi scroscianti e reverenziali. Le luci si spengono, la temperatura si abbassa, la sigla del festival parte a tutto volume e il film può finalmente cominciare.
È difficile spiegare quali sono state le sensazioni che hanno accompagnato la mia visione di DogMan. I primi minuti sono stati sicuramente dedicati a capire dove avessi già visto il formidabile Caleb Landry Jones (Twin Peaks 3 n.d.r.). Questo attore ancora semi sconosciuto al grande pubblico è la
vera e propria anima del film, lo porta sulle spalle come se ne andasse la propria vita. Fa un lavoro
minuzioso di costruzione del personaggio, caratterizzandolo al massimo e rendendo molto facile
entrare in empatia con lui.
Il personaggio di Landry Jones, Douglas, avrebbe potuto essere il villain perfetto per qualsiasi film di super eroi; invece è questo ragazzo dolce, dalla voce pacata che ama i suoi cento cani più di ogni altra cosa al mondo e che farebbe tutto per loro, anche morire. La sua storia inizia come tutte le migliori origin story. Padre violento, fratello maggiore che ricalca le impronte del padre, madre sottomessa che quando non ce la fa più non ci pensa due volte a lasciare tutto e tutti (Douglas compreso) per farsi una nuova vita.
Il nostro giovane protagonista cresce circondato da violenza e cattiveria, ma non se ne fa scalfire anzi ne esce fortificato e pieno di amore da dare al mondo, anche se lui non ne ha mai ricevuto. Quello che Douglas si porta dietro dalla sua infanzia è una disabilità importante che però non lo fermerà mai dal fare ciò che vuole. È questo secondo me uno degli aspetti più belli del film: il modo in cui la disabilità viene rappresentata. Il nostro antieroe vive sulla sedia a rotelle, con dei rigidissimi tutori di ferro alle gambe e l’incapacità di stare in piedi per più di una manciata di secondi.
Nonostante Caleb Landry Jones cammini benissimo, il suo modo di mettere in scena questa problematica è estremamente convincente. Besson scrive la disabilità di Douglas come una cosa normale, senza renderla un aggettivo che scaturisca pietà in noi che la guardiamo da fuori. Douglas recita a teatro, lavora in un canile, guida la macchina, mette in scena dei numeri da Drag Queen, spara all’impazzata contro la gang che appesta il quartiere in cui vive e che chiede il pizzo alla sua lavanderia di fiducia.
Potrei stare qui ore a parlare di come la performance di Caleb Landry Jones sia stata toccante e bellissima sotto molti punti di vista (la sua performance drag di Edith Piaf è da lacrimoni), purtroppo però il film non è perfetto, ho avuto la sensazione per tutta la visione che mancasse qualcosa senza riuscire a capire davvero cosa fosse. Sicuramente le performance attoriali dei colleghi di Landry Jones non aiutano il giudizio complessivo sul film. Anche alcune scelte di sceneggiatura lasciano insoddisfatto lo spettatore. Besson apre varie sottotrame legate ai personaggi secondari della storia, senza mai scendere nei dettagli come, per esempio, fa con la psicologa che Douglas incontrerà dopo essere stato arrestato.
Perché parlarci del marito stalker e abusivo senza approfondire Luc? Perché?! Sarebbe stato un ottimo modo per aiutare lo spettatore a comprendere come mai la dottoressa si sentisse così legata a Douglas, o sarebbe potuto essere uno spunto per parlare di come anche la madre di lei fosse vittima di violenza domestica e di come, anche se cerchiamo di non compiere gli stessi errori dei nostri genitori, purtroppo alle volte cadiamo negli stessi meccanismi come se fossimo colpiti da una maledizione che ci porta a seguire il pattern che caratterizza la nostra storia familiare.
Anche i momenti legati alla violenza subita da Douglas sono pochi e affrontati superficialmente, ma questa potrebbe essere stata una scelta di sceneggiatura in quanto è lo stesso protagonista che ce ne parla e i ricordi sono quelli di un bambino che ancora non aveva imparato a scindere la figura di padre da quella dell’individuo fuori dal ruolo genitoriale. Perciò come noi non sappiamo cosa ci fosse alla base della violenza del patriarca della famiglia, così non lo sa Douglas stesso.
Si può dire che DogMan è diviso in due metà ben distinte: la prima in cui il regista si prende tutto il suo tempo nel mostrare quella che è stata la vita del protagonista nelle fasi della sua crescita e la seconda, focalizzata sulla sua vita adulta, dove il tempo scorre più veloce e i buchi di trama si fanno evidenti. Questa fretta di finire e la superficialità con cui vengono trattati certi aspetti della trama non giovano al film, lasciandolo in un limbo tra melodramma e thriller.
Un tema fondamentale e ricorrente in tutto il film è la religiosità di Douglas e di come egli si veda soggetto solo al suo giudizio. Il senso di giustizia e di punizione permeano tutta la messa in scena, rendendo il film quasi una parabola biblica. Douglas, martire moderno di questa storia, è sempre pronto a porgere l’altra guancia o a difendere a spada tratta chi è più sfortunato di lui e non ha i suoi stessi mezzi per combattere i cattivi che infestano la nostra società. Il nostro antieroe si riemette solo al giudizio divino, prendendo ogni difficoltà della sua vita come una sfida che Dio gli ha posto davanti per metterlo alla prova della sua fede.
Alla fine, però, Douglas si arrende e decide che anche per lui è arrivato il momento dell’eterno riposo. Perciò chiama a raccolta i suoi fedelissimi cani che lo aiutano ad evadere di prigione e compie quei pochi passi che lo porteranno ad esalare l’ultimo respiro. Il film si conclude con un’immagine cristologica degna dei migliori manuali di storia dell’arte: Douglas percorre il tragitto dalla stazione di polizia alla astante chiesa in silenzio circondato da coloro che non lo hanno mai abbandonato, i suoi cani, appena arrivato al cospetto della casa del Signore si stende atterra ricalcando l’ombra del crocifisso che svetta sul campanile della chiesa e si lascia andare, finalmente pronto ad abbracciare una pace che non ha mai conosciuto.
Quello che mi sento di consigliare è di andare a vedere Dogman senza però farsi troppe aspettative, cercando di arrivare in sala privi di pregiudizi non aspettandosi la pellicola più bella dell’anno.
Alle note negative si aggiungono un montaggio ed una fotografia per nulla memorabili. Tuttavia, la performance di Caleb Landry Jones vale la visione di un film complessivamente sufficiente. Spero che la sua performance non passi inosservata e che magari la stagione dei premi possa dargli qualche soddisfazione, portandolo ad essere presente in molti altri film che valorizzino al massimo il suo enorme talento.
Recensione a cura di Giulia Siracusa
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