Lost Country: la morte della Jugoslavia nel film di Vladimir Perisic [Recensione]

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Lost Country è il nuovo lungometraggio del regista Vladimir Perisic, presentato alla Settimana della Critica a Cannes e per la cui interpretazione Jovan Ginic ha ricevuto il Rising Star Award. L’anteprima italiana si è svolta il 26 gennaio durante il Trieste Film Festival 2024.

Belgrado, Serbia, 1996. Stefan (Jovan Ginic) è il figlio adolescente di Marklena (Jasna Djuricic), portavoce del partito socialista di Serbia. La Jugoslavia, nella seconda metà dei Novanta, è ridotta ad uno spettro ciò che è stato: la Slovenia aveva dichiarato con successo la propria indipendenza nel 1992, seguita dalla Croazia nel 1995 dopo quattro anni di guerra sanguinosa. Gli indipendentismi dei kosovari e dei montenegrini si facevano via via più forti, negli anni ’90, e la situazione in Bosnia era già incendiata: la notizia del massacro di Srebrenica, nel 1995, sebbene in sussurri e bisbigli, era giunta perfino a Belgrado. È tempo di elezioni, in Jugoslavia: la coalizione d’opposizione – Insieme – si vede contrapposta a quella storica, del partito socialista di Serbia.

Ma non a Stefan. Stefan è il figlio di una donna ricca e potente, invadente; lui fa una vita agiata, in uno degli stati più poveri d’Europa; la sua scuola è fra le migliori della città, va a pallanuoto, ha una casa splendida, la sua famiglia ha possedimenti lungo il Danubio (o la Sava) – nella persona del nonno, padre di Marklena (Dusko Valentic). Ha alcuni amici, ben più poveri ma ben più liberi di lui: famiglie attivamente inserite nella resistenza anti Milosevic, collaborazioniste degli indipendentisti kosovari. Stefan è solo. Stefan è solo un bambino, nel corpo di un quasi adulto. Mentre infuria la rivoluzione, in lui risuonano personalissime bombe: lo lacereranno, incapace di vivere in due realtà, fino all’inaspettato e climatico finale di Lost Country.

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Perisic, nel suo secondo lungometraggio e al ritorno al Trieste Film Festival dopo dodici anni, tocca alcuni temi puramente slavi, puramente jugoslavi: l’eterno vittimismo del corrotto governo serbo che, se si considera Milosevic come ancien regime, non è cambiato poi tanto, nell’anno domini 2024; la tremenda censura cui si assisteva, e la tarda, tardivissima, rispetto agli standard europei, rivoluzione guidata dagli studenti – ma Lost Country si spinge anche in una sfera più intima, e descrive l’intrusività e dominanza del potere statale perfino all’interno della famiglia. Marklena è una donna privilegiata, pellicce e cellulare, ma che vive per il partito, per quella causa socialista che aveva già causato quasi un milione di morti; è divorziata, indipendente. È manipolatrice, è astuta: sa come sottoporre ad un dolcissimo gaslighting – liscio e piumoso come un broglio elettorale e aggressivo come una contro-rivolta – il proprio figlio, fra cibo, shopping, ma, soprattutto, affetto e certezza. È una madrepatria nella figura di una madre: ella, nell’ottima sceneggiatura di Perisic e Alice Winocour, rappresenta la forza dell’abitudine, della negazione; il vuoto ed empio orgoglio che ha spinto e spinge la Serbia a tentare di prevaricare, abbrutire, primeggiare, cancellare, tutto ciò che non le appartiene. Cos’è Stefan senza di lei? Un ragazzino che ama il romanticismo inglese e la pallanuoto? Incapace di difendersi dai suoi amici? Cos’è la Serbia senza il PSS al governo?

Stefan cerca appartenenza, quando comprende la magnitudine dell’orrore che sua madre (e suo nonno!) contribuisce ad avallare. Non la trova nella rivoluzione dei suoi amici, perché figlio della prima e più importante serva del potere; non la trova nella sua fidanzatina, alle prese già con problemi di droga nonostante la giovane età; non la trova nel nonno, rinchiuso nel suo vikend in campagna. Non la trova nel suo mentore e professore di inglese, incapace di accettare la dualità del ragazzo.

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Dove la troverà? Qual è il posto nel mondo di chi è stato condannato alla nascita?

Sebbene Lost Country inizi come un film realista come tanti se ne vedono in area balcanica, esso segue, anche dal punto di vista tecnico, la narrazione della discesa all’inferno di Stefan – e della Jugoslavia. La fotografia di Sarah Blum si fa man mano più crepuscolare, e la regia di Perisic sceglie luoghi asfittici, chiusi, ristretti ma privilegia lunghi piani sequenza dal tono confuso e caotico. Le scene si fanno man mano più metaforiche e di più complessa interpretazione – come nell’estremo saluto da parte del professore, sotto la metropolitana, ad un perduto e disperato Stefan. Ad ogni nuovo annuncio di una radio libera riguardo gli ennesimi brogli, il volto di Stefan si fa più confuso ed imbronciato, e la sua voglia di vivere giovanile scivola via, schede bianche. Dal punto di vista di linguaggio cinematografico, Lost Country si rifà al cinema di Antonioni, prettamente al periodo inglese con Zabriskie Point, ma possiede il gusto per il nostalgico di The Celts, altro film presentato al Trieste Film Festival riguardante gli ultimi sospiri dell’Unione Jugoslava.

Liricamente e politicamente parlando, Perisic compie una scelta saggia nel suo raccontare la verità dei fatti, dal punto di vista personalissimo di un serbo in Serbia che ha avuto la (s)fortuna di vivere tali eventi in prima persona: una città in tumulto, un sogno d’unione fra gli slavi del sud che si scioglie come neve pallida al sole; e Lost Country è la narrazione metaforica di come l’imposizione di un’idea, a delle creature liberamente pensanti, non può e non potrà mai portare a nulla di buono e duraturo. Dunque, anche se Lost Country rimane oggettivo e narrativo, e può essere visto come un bildungsroman al contrario, nelle parole di Perisic, esso ha ottenuto scarsissima distribuzione in patria – testimonianza di come, in fondo, nulla è cambiato.

Qual è il posto nel mondo, per la Jugoslavia? Lost Country risponde a tale domanda, e lo posiziona sul fondo del Danubio, con uno zaino di scuola pieno di sassi, all’alba. Una promessa, ricolma di speranze, di forza e unità – promessa risultata, infine, solamente nella frizione, nella prevaricazione, e nello scisma fra il supposto mondo orientale e mondo occidentale, e, in ultima analisi, nella morte. Cosa ne sarebbe stato, dell’unione degli slavi del sud, se la democrazia fosse stata rispettata? Se nessun genocidio fosse stato compiuto? Che razza di stato è, uno che costringe i propri figli al suicidio?

Perisic ci lascia dunque,con Lost Country, un film potente e godibile, ottimamente interpretati dai due protagonisti, madre e figlio nella finzione, ed esprime con forza l’esigenza di divulgare fatti così vicini al privilegiato pubblico occidentale, eppure così lontani.

Giulia Della Pelle
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