La regista afghana Sahraa Karimi ha pubblicato una lettera aperta, chiedendo il sostegno delle comunità cinematografiche di tutto il mondo per proteggere gli artisti mentre i talebani in Afghanistan prendono il sopravvento nel Paese. I ribelli sono noti per il loro fondamentalismo islamista intransigente e nefasto, e hanno alle spalle una storia di oppressione delle donne da togliere il fiato. Le loro rigide interpretazioni della legge includono, anche, il divieto di musica e film.
In una situazione del genere, mentre migliaia di persone cercano di fuggire dal paese e si registra un caos totale negli aeroporti, nelle stazioni e nelle strade dell’Afghanistan, viene da chiedersi: cosa accadrà al cinema nel paese?
Analizzare gli inizi del cinema afghano – dalla fiorente industria degli anni Sessanta e Settanta, al colpo di stato di Saur del 1978, fino alla “ricostruzione” guidata dagli Stati Uniti dal 2001 – mostra tutta l’evoluzione storico-politica dietro un paese dilaniato dalle guerre e costretto a fare tabula rasa della sua cultura. A causa dei cambiamenti politici, la crescita della settima arte è stata annientata in Afghanistan nel corso degli anni. Tuttavia, l’industria afghana è entrata in una nuova era nel 2001 con la rinascita dell’industria cinematografica da un lungo periodo di assenza e silenzio.
In questi vent’anni, la rappresentanza delle donne è aumentata enormemente nel settore.
Tanto che Sahraa Karimi è riuscita persino a conseguire un dottorato di ricerca in cinema. Attrici come Leena Alam, Amina Jafari, Saba Sahar e Marina Gulbahari si sono fatte notare a livello internazionale nell’ultimo decennio. Il film che ha attirato l’attenzione del mondo sull’Afghanistan è stato Kandahar di Mohsen Makhmalbaf nel 2011, che è diventato anche il primo lavoro afghano a partecipare al festival di Cannes. In seguito sono stati realizzati altre opere importanti come Osama che ha vinto i globi d’oro nel 2003, Buzkashi Boys, nominato agli Oscar, e poi A Letter to the President e Emaan tra gli altri.
Il desiderio sempre rinnovato di creare un cinema nazionale afghano mostra quanto la settima arte sia stata parte integrante delle ambizioni di ricostruzione dell’identità nazionale, anche quando è rimasto un progetto insoddisfatto. E per questo oggi fa ancora più male pensare che, ancora una volta, gli sforzi sono stati vani.
In mezzo a questa situazione in rapido cambiamento nel paese, è stata propio la regista e direttrice generale della società cinematografica nazionale Afghan Film Sahraa Karimi a scrivere una lettera aperta all’Occidente, parlando degli orrori che i talebani hanno inflitto alla gente, vendendo ragazze come spose bambine ai loro combattenti e cavando gli occhi alle donne che non indossava i vestiti “giusti”.
Ha anche scritto che i terroristi stanno assassinando membri del governo, in particolare il capo dei media e della cultura, nonché comici, storici e poeti. Migliaia di famiglie stanno scappando verso la libertà e vivono in condizioni antigieniche a Kabul, dove i bambini muoiono perché non c’è latte. Poi rivolge uno sguardo alla comunità artistica e creativa del suo paese, sopraffatta dai ribelli.
“Se i talebani prenderanno il controllo vieteranno l’arte. Io e altri registi potremmo essere i prossimi sulla loro lista di successi. Toglieranno i diritti delle donne, saremo spinti nell’ombra, nelle nostre case, e le nostre voci saranno soffocate nel silenzio. Proprio in queste poche settimane i talebani hanno distrutto molte scuole e due milioni di ragazze sono ora costrette a lasciare la scuola”.
Adesso, il mondo dell’arte e le donne afghane temono che un ritorno al governo talebano significherà anche un ritorno alla sua austera e dura interpretazione dell’Islam, che a lungo ha severamente limitato i loro diritti fino alla caduta del regime guidata dagli Stati Uniti nel 2001. Sotto l’ex regime dei talebani, infatti, alle ragazze era stato impedito di frequentare la scuola, mentre alle donne era stato in gran parte vietato di partecipare alla vita pubblica senza burqua e senza essere accompagnate da uomini di famiglia.
E, in questo periodo storico, in cui noi siamo concentrati sulla querelle della filosofia dell’artista ribelle, dove c’è gente che grida alla “dittatura sanitaria” perché gli viene richiesto il green pass in un ristorante, dall’altra parte del mondo l’arte rischia di essere cancellata e migliaia di donne hanno timore di diventare un bottino di guerra.
Non oso pensare cosa significhi essere donna oggi in Afghanistan. Non oso pensare cosa voglia dire tornare sotto prigioni di tela, in cui i loro corpi profanati saranno esibiti come monito e vendetta. Non oso pensare cosa voglia dire fare informazione e fare arte.
E’ in questo contesto che le donne saranno costrette a diventare invisibili e i lavoratori dell’arte, della cultura, dell’informazione, della musica e del cinema saranno messi a tacere. Sta a noi, adesso, evitare che le loro bocche rimangono cucite.
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Approfondimento molto interessante e originale. Non si conosce molto la storia del cinema afghano e in questo periodo purtroppo l’arte viene messa da parte dai media per dare spazio a temi sociali e politici… grazie per il lavoro che fate!