Enzo Biagi, voce libera del giornalismo. Cent’anni da punto di riferimento

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“Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un vendicatore capace di riparare torti e ingiustizie ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo”

Voglio cominciare così questo mio racconto su Enzo Biagi – che poi alla fine è diventato anche un po’ il racconto della mia vita, ma va bé – perché non c’è frase che più lo rappresenti e che mi rappresenti. Perché quando ho capito che il giornalismo era la mia strada, ero in un periodo di confusione totale. E a “salvarmi” è stata questa frase, o meglio, è stata: “lo scrissi anche in un tema alle medie”. Perché con queste parole mi ha ricordato che mantenere il ricordo delle emozioni vissute era tutto quello cui avevo bisogno.

E si, perché a scuola quello che mi riusciva meglio era scrivere temi e raccontare storie, erano le mie due ore preferite, dove potevo esprimermi liberamente, viaggiare con la fantasia e mostrarmi per quello che ero veramente. Riordinavo i pensieri, navigavo in mille mondi e tempi diversi, mi sfogavo e confidavo, esprimendo i miei sentimenti e le mie sensazioni. E avrei voluto che la scuola fosse sempre così, neutralizzata dal tempo di temi, saggi e poemi. Ma con le ore di storia in aggiunta, ovviamente.

Ed è proprio leggendo – qualche tempo dopo la fine della scuola dell’obbligo e nel pieno del mio corso di laurea – le parole di Enzo Biagi che il muro che mi ero costruita fino ad allora è crollato come un castello di sabbia. Perché è come se fossi tornata nel grembo materno, a quello che mi tranquillizzava e mi piaceva fare fin dal principio: scrivere e scoprire. Perché ho sempre visto il giornalista come un eroe senza mantello, una sorta di paladino della verità – che poi, alcuni, sono diventati spacciatori seriali di fake news è un’altra questione – che si dedica a qualcosa con grande generosità ed abnegazione.

E allora dietro a quel mio “voglio fare la giornalista”, gridato a gran voce come se fosse una liberazione da ogni paura insensata, c’è una spiegazione molto più semplice e razionale di quanto si immagini: il giornalista è un mestiere privilegiato, in grado di comprendere e conoscere la realtà dei fatti prima o meglio degli altri, spinto dall’insaziabile fame di conoscere e comprendere ciò che gli sta intorno. E questo Enzo Biagi lo sapeva benissimo e non a caso è diventato il padre del giornalismo italiano. Ed io, a mio modo, volevo far parte di questa cerchia stretta di professionisti.

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Enzo Biagi, una vita nel giornalismo

Il sacro fuoco dell’informazione e della comunicazione gli scorreva nelle vene. Il giornalismo era il sogno della sua vita e cominciò a realizzarlo a soli 17 anni, scrivendo per il quotidiano cattolico L’Avvenire. Il coraggio delle azioni non gli è mai mancato, nemmeno quando l’8 settembre 1943, per non aderire alla neo-fondata Repubblica di Salò, decise di varcare la linea del fronte per aggregarsi ai gruppi partigiani che operavano sul fronte dell’Appennino. Ed è forse il 21 aprile 1945, dopo che era entrato a Bologna con i compagni di lotta, che arriva il suo annuncio più importante, fatto dai microfoni del Pwb: la fine della guerra.

Nel 1952, quando l’Italia stava raccogliendo ancora le macerie del secondo dopoguerra, Enzo Biagi assumeva la direzione del settimanale Epoca, che grazie a lui diventò la prima rivista italiana. Ed è proprio da questo momento che inizia la sua scalata ai vertici dell’informazione. Infatti, nel bel mezzo del boom economico (leggi qui l’approfondimento di Cinecittà nel pieno del “miracolo economico”), entra in Rai come direttore del Tg1 – credo che sia stato il miglior direttore che la televisione di stato abbia mai avuto – e spalanca le porte a grandi professionisti come Idro Montanelli e Giorgio Bocca.

Negli anni accompagna gli italiani attraverso diverse trasmissioni televisive di costume e d’inchiesta: Douce France (1978), Made in England (1980), Film dossier (1982), Questo secolo: 1943 e dintorni, (1983), 1935 e dintorni, Terza B e Facciamo l’appello (1971), Linea diretta (1985, settantasei puntate), Spot (1986-87-88), Il caso (1989), Linea diretta, Terre lontane e Terre vicine. Dal 1995 dà vita a Il Fatto, un programma di approfondimento dopo il TG, considerato il miglior programma giornalistico realizzato nei primi cinquant’anni della Rai.

Nonostante le porte della televisione gli si sono spalancate davanti, Enzo Biagi non ha mai dimenticato il primo amore: il giornalismo su carta. Infatti, contemporaneamente diventa una firma storica del Corriere della Sera. Le polemiche che videro Enzo Biagi criticare aspramente la politica di Silvio Berlusconi, portarono all’allontanamento del giornalista dall’emittente televisiva pubblica. Generando la più grande ingiustizia e il più ingente abuso di potere della Rai.

A cent’anni dalla sua nascita, voglio dirgli “grazie”. Grazie perché il suo garbo e la sua sobrietà hanno saputo conquistare intere generazioni, offrendo un contributo importante al giornalismo italiano.

Un uomo colto e libero, un caposaldo per l’informazione ed i media. Ieri, oggi e domani.

Isabella Insolia
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