In Forrest Gump, nell’ormai lontano 1994, Robert Zemeckis mise in scena un simpatico siparietto in cui il protagonista (Tom Hanks), campione internazionale di ping pong, veniva intervistato accanto a John Lennon in merito al suo recente viaggio in Cina.
Nella scena, Lennon accende disinvolto una sigaretta e interviene a commento delle risposte di Gump:
Gump: “Nel paese della Cina, la gente a stento c’ha niente di niente…”
Lennon: “Nessuna proprietà?”
Gump: “…e in Cina loro non vanno mai in Chiesa…”
Lennon: “Nemmeno religioni?”
Conduttore: “Ah! Difficile da immaginare”
Lennon: “È facile se ci provi, Dick”
Confesso che solo la prima volta che guardai il film in lingua originale realizzai che quelle che Zemeckis aveva messo in bocca a Lennon erano le parole di Imagine (“No possessions?”… “No religion, too?”… “It’s easy if you try”). Nella trama eravamo indotti a pensare che il protagonista avesse accidentalmente suggerito a Lennon le parole della sua canzone più celebre. Ma quello che il film dava pure a intendere era che, sotto sotto, Lennon potesse essere un sostenitore del regime comunista in Cina.
Le polemiche sul “comunismo” di John Lennon si sono riaccese in Italia quando, in un post Facebook, la leghista Susanna Ceccardi contestò l’iniziativa di una scuola di far cantare ai bambini la più nota canzone di Lennon. Il sogno di Lennon – cioè una società senza proprietà privata, senza religioni, senza confini – secondo Ceccardi era esattamente quanto i regimi comunisti avevano provato a realizzare, ed era costato fame, miseria, oltre a qualche milione di morti.
Aveva ragione Susanna Ceccardi? John Lennon era un comunista? La risposta breve è sì, ma è il caso di spendere qualche parola in più per comprendere cosa significasse per un musicista rock sostenere certe idee nel 1971.
Fu Lennon a riconoscere:
Immaginare che non ci siano più religioni, confini nazionali o politica altro non è che il “Manifesto del partito comunista” , benché io in particolare non sia un comunista e non appartenga ad alcun movimento. (John Blaney, “Lennon and McCartney: Together Alone” , Jawbone Press, 2007, p. 52)
E ancora:
Non esiste al mondo alcuno stato realmente comunista; dovete rendervene conto. Il socialismo di cui parlo io non ha niente a che fare con il modo in cui potrebbe realizzarlo qualche sciocco russo, o come potrebbero realizzare i cinesi. Potrà andar bene per loro. A noi servirebbe un bel socialismo britannico. (ibid.)
In barba al nostro desiderio di rispondere inequivocabilmente sì o no alla domanda posta poc’anzi, Lennon non diede indicazioni inequivocabili, forse cadendo persino in contraddizione.
Certamente le idee di John Lennon ebbero una maggiore eco in virtù della fama del cantante, tanto che ancora oggi sentiamo il bisogno di schierarci “pro” o “contro” a seconda di quello che è il nostro orientamento. Ma non erano diverse dalle idee che un’intera legione di musicisti aveva perorato in decine di album nella seconda metà degli anni ‘60, lo stesso periodo che aveva visto la definitiva affermazione dei Beatles, sino allo scioglimento nel 1970: l’idea che ci sia da un lato il popolo buono, a favore della pace, dall’altra l’establishment corrotto e guerrafondaio; che le divisioni tra le persone siano artificiali e l’amore una forza talmente grande da poter realizzare l’unione di tutti i popoli; che le istituzioni che avevano fatto la fortuna della generazione del secondo dopoguerra – e cioè il lavoro, la famiglia, la proprietà – fossero fardelli da mettere in discussione, o addirittura di cui liberarsi.
Il “comunismo” di Lennon si spiega allora come un retaggio della controcultura e della cultura hippie in particolare, alla quale egli non apparteneva, ma con la quale era certamente entrato in contatto: la convinzione che per realizzare una società armoniosa e pacifica fosse necessario (oltre che sufficiente) rinunciare allo stile di vita inculcato dalla scuola e dalla famiglia, all’istruzione convenzionale, al culto del lavoro, alle proprietà personali, aprendosi al contempo all’amore e alla condivisione universale. Forze, queste, che avrebbero da ultimo reso superflua qualsiasi ricerca del profitto (“Imagine no possessions / I wonder if you can / No need for greed or hunger / A brotherhood of men”).
Quella di Lennon era la visione ingenua che auspicava quale panacea di tutti i mali la rinuncia spontanea a ogni elemento divisivo, e in effetti a qualsiasi forma di appartenenza: familiare, nazionale, confessionale e, naturalmente, di classe. E che ciò potesse realizzarsi senza alcuna violazione della libertà individuale. Ecco perché né la Russia né la Cina erano per Lennon “vero” comunismo. Se vogliamo, le sue parole non furono altro che l’ennesimo tentativo, e non il più sofisticato (Lennon era un musicista, non un accademico), di sganciare il comunismo dai suoi esiti più nefasti. Il suo era ciò nondimeno “comunismo”? Ciascuno può trarre le sue conclusioni.
Fortunatamente l’eredità musicale di John Lennon non è legata alla validità o alla correttezza delle sue idee, non più di quanto lo siano quella di Jimi Hendrix, dei Doors o di Frank Zappa. A quarant’anni dal brutale omicidio, è ora di iniziare a trattare le sue idee, a cominciare da quelle espresse nella sua canzone più celebre, come un aspetto della sua opera da interpretare nel contesto storico in cui furono concepite.
Da Girl a Lucy in the Sky with Diamonds, da I’m Only Sleeping a A Day in the Life, da I Am the Walrus a Come Together, da Strawberry Fields Forever alla stessa Imagine (leggi “Le canzoni d’amore dei Beatles“), ricordiamo allora Lennon per le sue splendide canzoni, per le melodie, i ritornelli, le armonie vocali con gli altri Beatles, per il modo in cui reinterpretò la psichedelia, per i tentativi – non felicissimi – di lasciarsi alle spalle il pop e sperimentare con l’avanguardia, per il contributo fondamentale al primo fenomeno planetario (o il secondo, dopo Elvis) della musica rock, che stimolò l’immaginazione di una nuova generazione di musicisti (e le ambizioni dei discografici). Per aver scritto, in coppia con McCartney, le canzoni forse in assoluto più conosciute, più apprezzate, più cantate e più suonate dell’intera storia della musica.
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Lette le sue considerazioni, ecco forse Lennon era piú vicino al “Trattato sulla Disuguaglianza” di J. J. Rousseau, laddove il francese affermava che la proprietà privata é l’origine del male e il Capitalista é come un “Lupo” che una volta assaggiato il sangue umano non puó che desiderarne ancora, cosí il capitalista con la proprietà, che é sempre tolta a qualcuno.
Pertanto i suoi colleghi illuministi “e borghesi” (Voltaire in primi & c.) lo irridevano: il potere assoluto era messo in discussione, ma la proprietà privata no.
E sí certamente in questo senso il pensiero di Lennon ha l’impronta di un protosocialismo rousseauniano, favolistico ed ingenuo, ma senza avere la sistematicità della lotta di classe e politica di Marx. Era un artista sognatore nel tempo delle utopie e non un politologo.
Per questo forse Marx avrebbe trattato Lennon alla stregua dei socialisti utopisti d’inizio Ottocento.
– Eh cari colleghi e come volete arrivarci alla communio? Coi sorrisini e senza lotta di classe? Il sistema – politico ed economico- vi mangerannno!
Ora una riflessione sul Capitalismo oggi é quanto mai auspicabile perché ha rubato l’anima col suo relativismo e nichilismo, ma pensare ad un governo comunista oggi é praticamente da folli.
Andrea Giuseppe Graziano
Buongiorno Andrea, la ringrazio per il commento. La critica della proprietà privata ha un lunga storia, che nasce ben prima di Marx (e di Lennon). Rousseau è sicuramente uno degli autori più influenti di questo filone. Grazie per l’attenta lettura e alla prossima.
Grazie a lei, Andrea.