Lo scorso anno pubblicai qui su Shockwave Magazine una lista di dieci album usciti nel 1970, e che dunque avevano appena compiuto, o erano in procinto di compiere, il loro cinquantesimo anniversario.
Nel tentativo di trasformarla in una rubrica a cadenza annuale, e con la speranza di estenderla anche ad altri decenni, mi accingo a fare lo stesso con il 1971.
Non diversamente dall’anno scorso, non intendo presentarla come una lista dei “migliori” dieci album (posto che una lista del genere possa esistere). Inoltre, sceglierò deliberatamente di non trattare una serie di indiscutibili capolavori, sui quali sono stati versati fiumi d’inchiostro e che pertanto non hanno lo stesso bisogno di essere ricordati. Tra questi, l’omonimo quarto album dei Led Zeppelin, Master of Reality dei Black Sabbath, Sticky Fingers dei Rolling Stones.
David Crosby, If You Could Only Remember My Name
Uscito a febbraio del 1971, il primo – e per più di quarant’anni unico – album solista di David Crosby ha un fondamentale valore simbolico. Il nuovo decennio porta con sé la fine dei sogni utopistici che avevano colpito l’immaginazione della prima generazione di protagonisti del rock. Se già le morti di Jimi Hendrix e Janis Joplin avevano mostrato che il consumo di droghe non era soltanto euforia e visioni di mondi alternativi, la percezione di molti artisti all’inizio del decennio è che l’industria discografica e il “dio denaro” abbiano reso innocue le istanze più rivoluzionarie della controcultura (che d’altronde si erano perlopiù tradotte in un nulla di fatto).
Quasi involontariamente, l’album di Crosby esprime la malinconia che conseguì a questa acquisita consapevolezza. Non è un caso che tra i partecipanti all’album troviamo molti dei protagonisti della stagione musicale che stava volgendo al termine (in alcuni casi solo per aprirne una interamente nuova): Graham Nash, Grace Slick e i Jefferson Airplane al completo, Neil Young, Joni Mitchell, Jerry Garcia e altri membri dei Grateful Dead, alcuni componenti dell’ensemble di Santana, ecc. Non che i brani fossero socialmente disimpegnati, ma l’acid rock/folk rock che troviamo in questo splendido album vede ora prevalere un sentimento di rassegnazione, sottolineato dallo sguardo di Crosby in copertina perso in un tramonto sul mare. Come hanno osservato Ernesto Assante e Gino Castaldo, inoltre, “il rock dopo questo disco abbandona definitivamente l’America e torna in Inghilterra, dove regna incontrastato fino alla metà del decennio” (33 dischi senza i quali non si può vivere. Il racconto di un’epoca, Einaudi, Torino 2007, p. 302).
Carole King, Tapestry
Tra le tendenze che contraddistinsero la musica rock della prima metà degli anni ‘70, e il cantautorato in specie, ci furono l’emergere delle singer-songwriter al femminile e il prevalere della dimensione individuale e personale su quella sociale e politica, che aveva dominato il decennio precedente. Se un esempio del secondo trend è dato dagli album solisti di Paul Simon e in parte di Neil Young, per il secondo bastino i nomi di Joni Mitchell, Carly Simon e Laura Nyro.
I due trend trovarono un’evidente convergenza in Carole King, di cui Tapestry costituisce l’apice artistico e il più grande successo commerciale. Terminata la stagione dell’impegno politico, Carole King inaugura con indiscutibile bravura quella delle atmosfere intime e familiari e delle situazioni informali e colloquiali. Le canzoni trattano ora di amori felici (I Feel the Earth Move) o amori perduti (It’s Too Late), di amicizia (You’ve Got a Friend), di nostalgia per le persone amate (So Far Away), di difficoltà nel trovare la propria strada (Way Over Yonder). In un’epoca in cui il rock inizia a puntare sulla complessità e la sperimentazione, Tapestry rappresentò di contro il tentativo ben riuscito di recupero (o consolidamento) della canzone nella sua forma più semplice e comprensibile.
Popol Vuh, In den Gärten Pharaos
Con In den Gärten Pharaos, i Popol Vuh di Florian Fricke proseguono le elucubrazioni al Moog (suonato dallo stesso Fricke) già iniziate con il precedente Affenstunde, ma il risultato è di una maestosità e una spiritualità senza precedenti. L’album constava di due sole lunghe tracce, una per lato. La prima, In den Gärten Pharaos, è una lunga esplorazione dello spazio cosmico (e sonoro), nel tentativo di restituire il senso di mistero, la percezione dell’eternità spaziale e temporale, alla costante ricerca di un punto di comunione tra il sé e l’universo. Deboli percussioni africane e tablas (Holger Trülzsch) e un lieve rumore di acqua scrosciante stabiliscono un equilibrio tra la ricerca dell’ultraterreno e il richiamo del mondano, rotto ancora una volta verso la conclusione dalle elucubrazioni del Moog di Fricke. Il tono, al crocevia tra ambient e new age, è solenne, religioso, privo di storytelling, quasi a voler riprodurre fedelmente il sentimento di sospensione e attesa di fronte all’eterno.
Vuh, registrato nel Duomo di Baumburg, ottiene un effetto non dissimile attraverso un muro di suono organistico fatto di ronzii, glissando, crescendo, temperato ancora una volta da percussioni e piatti. Un senso di ricerca pervade anche questo brano, ed è ancora meno chiaro dove finisca l’esplorazione del cosmo e abbia inizio quella dell’io. In den Gärten Pharaos è uno dei capolavori della stagione musicale del krautrock, testimonianza tra le più preziose della creatività della scena tedesca della prima metà degli anni ‘70.
Chico Buarque, Construção
Il rock non era riuscito a scatenare una rivoluzione, fermare la guerra o rovesciare le élite, ma aveva dimostrato la capacità della musica e dei concerti – grazie anche alle possibilità dell’industria discografica – di lanciare messaggi sociali e politici e smuovere le coscienze. Nel 1971 il cantante e musicista brasiliano Chico Buarque, appena tornato da un viaggio in Italia per sfuggire alla persecuzione politica, pubblica Construção, un album che segna una repentina maturazione nel suo percorso musicale, ma anche della musica brasiliana in generale. In appena mezz’ora l’album fuse una grande varietà di influenze e stili, raccontando le sofferenze del popolo brasiliano oppresso dalla dittatura militare. Sono critiche implicite, e forse per questo, forse per via della notorietà di Buarque, l’album non fu soggetto a censura.
C’era il sarcasmo di Deus lhe pague, in cui Buarque ringrazia il regime per ciò che c’è di bello nella vita (il pane da mangiare, il diritto di sorridere, le spiagge, le belle donne), tutte cose di cui è lecito godere purché non si protesti (“um crime pra comentar”); c’è il grido di libertà di Cordão (“Ninguém vai me acorrentar / Enquanto eu puder cantar / Enquanto eu puder sorrir”, “Nessuno mi incatenerà / Finché posso cantare / Finché posso sorridere”); c’è il capolavoro metrico di Construção, il brano che dà il titolo all’album; c’è Minha História, riadattamento di 4/3/1943 di Lucio Dalla; c’è la speranza di cambiamento e la paura dell’esilio di Samba de Orly; c’è Acalanto (“Ninna nanna”) in cui si invita una bambina a continuare a dormire perché là fuori non c’è nulla per cui valga la pena svegliarsi. Tra MPB, samba, bossanova e tradizioni folk portoghesi, Construção è giustamente ricordato come uno degli album più importanti della storia della musica brasiliana.
Gil Scott-Heron, Pieces of a Man
Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 il jazz conosce una lunga serie di contaminazioni che ne ampliano a dismisura le potenzialità espressive. Soul, rock e funk diventano vocabolario comune di molti jazzisti vecchio stampo, ma emerge anche una nuova generazione di artisti pronti a impadronirsi del nuovo linguaggio e riadattarlo alla sensibilità sociale e politica del tempo. Uno dei risultati più apprezzabili di questo trend è Pieces of a Man di Gil Scott-Heron, poeta prestato alla musica che, con la collaborazione del pianista Brian Jackson, mette a segno un album destinato a esercitare un’importante influenza sulla black music.
Pieces of a Man è giustamente ricordato per il brano di apertura, The Revolution Will Not Be Televised: un giro di basso memorabile (Ron Carter, ex-Miles Davis Quintet) e il “parlato” di Scott-Heron che anticipano di un decennio la rap music. Ma il brano costituisce un unicum all’interno dell’album. Lo stesso Scott-Heron ebbe a rammaricarsi del fatto che The Revolution Will Not Be Televised avesse in qualche modo oscurato il resto dell’album. Gli altri dieci brani che lo compongono non adoperano il parlato, muovendosi su un terreno più vicino al soul che al funk. Ma il songwriting raffinato (in particolare Save the Children, Lady Day and John Coltrane, Home Is Where the Hatred Is e le splendide composizioni pianistiche, Pieces of a Man e A Sign of the Ages) per non parlare del commentario sociale dei testi, ne fecero un album tra i più importanti e influenti della storia della black music.
Caravan, In the Land of Grey and Pink
Nel 1971 videro la luce diversi capolavori del progressive rock: solo per citarne alcuni, Nursery Cryme dei Genesis, Islands dei King Crimson, The Yes Album e Fragile degli Yes. Tanto basterebbe per farne una delle annate più interessanti del decennio. I Caravan non ebbero lo stesso successo di pubblico e vendite, ma sarebbe un errore sottovalutare il contributo di una delle compagini più interessanti della scena di Canterbury.
In quello che è probabilmente il loro album migliore, In the Land of Grey and Pink, troviamo compendiate due anime della band. L’anima prog, con la splendida cavalcata di Winter Wine e la suite di ventitré minuti Nine Feet Underground: un prog avaro di virtuosismi, fatto di costanza e delicatezza, come una macchina che viaggia ben al di sotto del limite di velocità perché è certa della sua destinazione. E un’anima goliardica, più aderente alla forma canzone, in grado di produrre melodie allegre e gioviali più simili a filastrocche o ninne nanne per bambini che a brani di rock n’ roll (difficile non considerare Golf Girl e In the Land of Grey and Pink come piccoli capolavori). Lontano dalle sperimentazioni più ardite e avanguardistiche di altri protagonisti della scena di Canterbury, l’album si è nondimeno affermato con un classico del genere ed è ancora oggi ricordato come una delle gemme dell’epoca d’oro del progressive rock.
Faust, Faust
Nella prima metà del decennio la Germania dell’Ovest fu il paese che registrò il più alto livello di innovazione e sperimentazione nel campo del rock. Tanta era la voglia di distanziarsi dal “canone” angloamericano – e quindi dal blues, dal folk e da un certo tipo di psichedelia – che più di un gruppo finì per creare un linguaggio fondamentalmente nuovo. Con l’arrivo dei Faust, la musica tedesca riscrive completamente il vocabolario del rock, oltrepassandone di fatto i limiti e approdando su un terreno di cui è difficile percepire la natura e i confini, secondo alcuni affine persino al teatro dell’assurdo.
Il loro omonimo album d’esordio è un’esperienza d’ascolto senza pari. Un suono di synth sconnesso, un’orgia “zappiana” di fanfare da circo che proseguono in una jam spastica attraversata da voci e impulsi sonori disordinati (Why Don’t You Eat Carrots); un baccanale di sonorità “concrete”, caos di note senza melodia né armonia, cori discordanti che fanno il verso alle armonie vocali, una jam di jazz-rock che emerge dal nulla e che sfocia nella (a questo punto incomprensibile) melodia di un organo (Meadow Meal); una sequenza strumentale interrotta da sibili, rimbombi e altri espedienti che hanno come unico scopo prendere il rock per come lo si conosce (il progressive, la psichedelia, il concetto stesso di suite strumentale) per dissezionarlo, ridurlo in pezzi dall’interno (Miss Fortune). La realtà ne esce talmente deformata che tutto ciò che si può affermare alla fine dell’album è: “and at the end realize that nobody knows if it really happened”.
Pochi altri gruppi sono riusciti con altrettanta efficacia a prendere il rock ed elevarlo ad arte maggiore. Molti altri – dai Beatles ai Pink Floyd, passando per Frank Zappa – avevano sfruttato le potenzialità dello studio e utilizzato le tecniche di collage della musica concreta. Nei Faust, quest’approccio da marginale diventa totale: le parti suonate, strumentali, sono elementi fra tanti, tessere di un mosaico più vasto, che capovolge interamente ciò che la musica rock era stata fino ad allora.
Marvin Gaye, What’s Going On
È impossibile sopravvalutare l’importanza di What’s Going On di Marvin Gaye nella storia del soul e della popular music. C’è un prima e un dopo della black music, e lo spartiacque – assieme ai lavori di Sly Stone, James Brown e altri – è segnato in modo decisivo da quest’album. Negli anni ’60 l’intero edificio della soul music, o quasi, passa per l’etichetta Motown di Detroit. La Motown ha i propri songwriter, i propri produttori, il proprio sound: sceglie i performer, assegna loro musiche e testi, li circonda dei propri turnisti. Il suo ruolo è decisivo nel portare all’attenzione del grande pubblico la musica degli afroamericani, ma a forza di lavorare come una catena di montaggio, finisce per rendere quel sound sempre più stantio.
Prima di entrare in studio per registrare What’s Going On, Gaye è totalmente inserito in questo ingranaggio. Lo è al punto da affermare in quegli anni di “non meritare” il successo ottenuto e di sentirsi come “un fantoccio” (a puppet). Gaye cessò di essere un fantoccio quando vinte le resistenze della label entrò in studio di registrazione per incidere canzoni da lui scritte, musica da lui prodotta, in alcuni casi con dei musicisti da lui scelti. Ed erano brani di una bellezza non comune. Ma soprattutto portò nei testi una consapevolezza dei problemi sociali mai udita prima, affrontando temi come la povertà urbana (Inner City Blues), l’abuso di droghe (Flyin’ High), la condizione dei veterani di guerra (What’s Happening Brother) e persino istanze ecologiste (Mercy Mercy Me), in un’epoca in cui l’ambientalismo era molto meno sentito di oggi.
Il successo fu tale che la Motown stessa fu indotta a cambiare atteggiamento in merito alla libertà degli artisti (basti in proposito l’esempio di Stevie Wonder). Estremizzando, verrebbe da dire che What’s Going On fu per la black music ciò che Blonde on Blonde fu per il rock: prima ci sono canzonette, dopo c’è la creazione artistica, la volontà di dire qualcosa attraverso la musica.
Genesis, Nursery Cryme
Nursery Cryme è uno dei massimi album progressive rock non solo dell’anno e del decennio, ma di tutti i tempi. L’album giunse dopo l’ingresso nella band di Steve Hackett (chitarra) e Phil Collins (batteria, ma occasionalmente arruolato alla voce), che andavano così a completare – con Peter Gabriel, Tony Banks e Mike Rutherford – il quintetto “classico” dei Genesis. Con l’arrivo dei nuovi elementi, il gruppo sfodera un lavoro che unisce la complessità “classicheggiante” delle composizioni all’erudizione dei riferimenti letterari, che si muovono agevolmente tra mitologia greca e leggende vittoriane.
I brani migliori sono quelli più lunghi (The Return of the Giant Hogweed, The Fountain of Salmacis), benché anche i più brevi For Absent Friends (con Phil Collins alla voce) e lo “scherzo” di Harold the Barrel (un duetto tra Gabriel e Collins) dimostrino la finezza delle loro partiture. Il pezzo da novanta è The Musical Box: un racconto in musica di dieci minuti – con Gabriel al top della sua espressività teatrale – in grado di bilanciare alla perfezione il suono delicato di un carillon con quello roboante di un’orchestra sinfonica, e di coniugare la grinta del rock con la compostezza della musica da camera. Giustamente annoverati, con King Crimson e Yes, nel terzetto “d’oro” del prog-rock, i Genesis devono a Nursery Cryme una parte sostanziale dei riconoscimenti che si sono aggiudicati negli anni.
Can, Tago Mago
I dieci album di questa lista non sono necessariamente i migliori, e il loro ordine non costituisce un ranking. Tuttavia, se lo fosse, Tago Mago dei Can sarebbe probabilmente in prima posizione. Benché come esperienza di ascolto rimanga irripetibile, il numero di band influenzate da quest’album, e in generale dai Can, è semplicemente incalcolabile. Dal post-punk al post-rock, la loro attenzione ossessiva per il ritmo e per la ripetizione, il tentativo costante di rendere ordinato il disordine, riecheggiano nell’opera di decine di band senza che queste ultime ne siano state necessariamente consapevoli. Il merito va soprattutto a quell’eccezionale batterista che fu Jaki Liebezeit.
Liebezeit era un musicista estremamente istruito, con esperienze nel free jazz, ma lo stile che portò nel gruppo fu estremamente minimale, quasi monastico. La sua fu una rivoluzione non tecnica, ma concettuale, che rese la musica dei Can nient’altro che una declinazione dell’idea di ritmo. La prima traccia dell’album (Paperhouse) inganna l’ascoltatore con un’introduzione melodica, ammiccante, prima che la batteria prenda il sopravvento con un ritmo tribale insistito che trascina con sé il resto degli strumenti. Persino nel cantato, estremamente suggestivo, di Damo Suzuki, la componente ritmica è prioritaria rispetto a quella melodica o testuale. Se nel rock (e non solo) la batteria ha il compito di fornire l’impalcatura su cui si muovono l’armonia e la melodia, nei Can sembra quasi che gli altri strumenti non abbiano altra funzione che permettere al ritmo di proseguire indisturbato.
Nei 17 minuti psichedelici, avanguardistici, di Aumgn, Liebezeit sembra farsi da parte per oltre metà del pezzo, ma è sempre lui a riprenderne le redini sul finale imprimendo l’unico senso che la musica sembra avere. Nei Can il ritmo definisce il tempo (in senso fisico e non musicale), e non il contrario. Il capolavoro dell’album, da questo punto di vista, nonché una delle vette più alte raggiunte dalla musica rock, è Halleluwah: un funk ossessivo, un groove malato che sembra non finire mai, in cui ogni strumento (il basso di Holger Czukay, ma anche la chitarra di Michael Karoli, persino nelle parti solistiche) sembra non avere altro compito che definire una concezione circolare del tempo. È un brano di diciotto minuti che potrebbe indifferentemente durarne il doppio. Altri due brani ipnotici come Mushroom e Oh Yeah, la psichedelica Peking O e la più morbida, ma egualmente suggestiva, Bring Me Coffee or Tea concorrono a completare uno dei capolavori della stagione del krautrock, una miniera di intuizioni mai del tutto metabolizzate.
Honourable Mentions
Alcuni album, oltre a quelli già indicati nel corso dell’articolo, che avrebbero potuto figurare in questa lista, ma che non ce l’hanno fatta, non per demeriti intrinseci, ma per arbitrio dell’autore:
- Janis Joplin, Pearl
- Jethro Tull, Aqualung
- Joni Mitchell, Blue
- Miles Davis, A Tribute to Jack Johnson
- Tangerine Dream, Alpha Centauri
- The Who, Who’s Next
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